di Salvatore Sechi
Giorgio Napolitano fu un socialista liberale (altra cosa è il liberalsocialismo) come lo sarebbe stato Antonio Gramsci?
Questa opinione è stata riproposta da uno studioso che non si é mai piegato al clima limaccioso del conformisno dominante non di rado tra gi intellettuali comunisti, come Franco Lo Piparo su Il Foglio, ma non mi pare accettabile.
Gramsci non è stato mai un sostenitore della cultura politica del liberalismo, cioè della divisione dei poteri, dello Stato di diritto, di un sistema di controlli sull’esercizio dei poteri ecc. Si è limitato nel primo dopoguerra e fino al 1918 a sostenere la possibilità di una modernizzazione (o riforma che dir si voglia) del capitalismo. Già nel 1914 aveva aderito alla campagna anti-protezionista di Gaetano Salvemini e di un nucleo di economisti liberisti (come Attilio Cabiati, Antonio De Viti de Marco, Edoardo Giretti ecc.) che si avvalsero per un certo periodo del consenso di un economista autorevole e di prestigio come Luigi Einaudi.
Gramsci riteneva che una riforma in senso libero concorrenziale del capitalismo avrebbe potuto determinare un aumento dell’occupazione e
Questa stagione fondata sulla riformabilità del capitalismo dura fino al tentativo da parte del presidente degli Stati Uniti Wilson di creare un sorta di programma internazionale su queste basi.
Ma dopo la conquista del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi e di Lenin Gramsci diventa vittima consenziente del comunismo. Che non sia un liberale, come ha cercato di sostenere Lo Piparo, lo dimostra l’atteggiamento di fronte alla decisione di Lenin nel gennaio 1918 di sciogliere l ‘Assemblea Costit
Fu un colpo di mano che segnerà la vocazione, ma anche la lunga prassi dispotica, dei comunisti russi e di quanti in Europa, in Asia, in America latina riusciranno a impadronirsi del potere. Alla “dittatura del proletariato”, allora inaugurata, non rinunceranno mai più.
Gramsci di fronte a questo plateale colpo di mano di Lenin su un organo socialista torinese, “Il Grido del Popolo”, scrisse due articoli (gennaio e luglio 1918) di comprensione e di giustificazione.
In primo luogo per dire che l’Assemblea costituente era un ferrovecchio della concezione liberale borghese della rappresentanza, quindi una ben misera cosa rispetto al nuovo sistema rappresentati
La realtà storica sarà l’opposto. Il bolscevismo aveva impresso al comunismo governante il suo carattere permanente di un regime oppressivo e discriminatorio. Gramsci se ne renderà conto negli anni Trenta, quando descriverà quello che in origine aveva amato chiamare “lo Stato operaio” come una variante del neo-bonapartismo. Ma non arriverà ad essere un apostata del comunismo, cioè a diventare un liberaldemocratico.
Lo è stato Giorgio Napolitano? Non solo egli ha applaudito un’operazione reazionaria come quella sovietica di mandare nel 1956 l’Armata rossa a piegare la resistenza ungherese al dispotismo comunista. Se ne pentirà furtivamente andando a chiedere scusa ad un esponente socialista come Antonio Giolitti. Aveva avuto il coraggio-
Purtroppo Napolitano non volle, e non seppe, fare una battaglia politica dentro il Pci contro la proposta di Berlinguer di opporre all’esperienza del comunismo e a quella della socialdemocrazia, messe disinvoltamente sullo stesso piano, una”terza via”. E’ rimasta una sfinge, un’espressione della volontà del segretario del Pci di non riconoscere il fallimento storico, in tutte le parti del mondo, del modello comunista di conquista e di governo. Era la persistenza dell’esecrazione che delle esperienze socialdemocratiche
Lo stesso Pd, e ancora oggi la Schlein, ha conservato questa sorta di demonizzazione verso governi che hanno preferito le riforme alla rivoluzione, rispettando i percorsi istituzionali della liberal-democrazia. Da questo punto di vista neanche Napolitano, al pari di Gramsci, ha voluto voltare le spalle ai miti e alle illusioni, alle spaventose crudeltà e agli eccidi, del comunismo realizzato. Un riformista non può evitare di essere anti-comunista.