di Marco Moroni
Cosa può fare una persona per farsi notare nell’ipocrita società italiana delle eccellenze? Fare l’esatto opposto. Il negativo è sempre stato vendibile, almeno quanto il positivo (se non di più).
L’assessore che ruba e intasca tangenti è popolare almeno quanto l’assessore che rilancia la città degradata o dà il suo stipendio in beneficenza, un uomo di cultura che urla bestialità e cattiverie è più chiacchierato di un critico d’arte in grado di improvvisare discorsi profondi di fronte ad un quadro, chi compra gli esami sarà commentato più del laureando con la tesi di ricerca già pronta per un’edizione Mondadori.
Sono gli estremi che fanno la differenza e siccome quello positivo è a numero chiuso, meglio puntare all’estremo negativo. Non c’è da disperare: eccellere è un successo e il successo è arte per pochi (altrimenti non si chiamerebbe “successo”). Il successo personale, invece, è troppo piccolo, grigio e ordinario per venire notato. Non finirà mai in prima pagina o in prima serata. In fin dei conti tutti possono ambire ad onesti risultati e per questo sentiremmo su di noi il peso della mediocrità (e della mancanza di un grande traguardo personale). Perciò facciamo del nostro peggio e facciamolo al meglio. È così che verremo notati.
E se la perfezione è noiosa e irritante e (come abbiamo detto) la normalità è banale e faticosa da mantenere (e non fa altro che tramutarci in squallidi omini medi), a che pro puntare al meglio per la società o per sé stessi?
Le cose vanno così ed è così che volenti o nolenti si lancia un messaggio ai propri conterranei attraverso i servizi in televisione o sulle testate cartacee o online. Ed è proprio per questa ragione che se avessimo qualcosa da dire in questo momento sulla nostra facoltà (e vogliamo essere notati) dovremmo fare la cosa peggiore che ci viene in mente. Già che ci siamo scriviamo la nostra critica sopra il gesto in questione: vedrete che nessuno oserà seppellirla sotto la pila all’interno del secchio indifferenziato delle opinioni. Non più almeno.
E non è solo perché la tragedia è un ottimo megafono (che devasta chiunque abbia il pessimo gusto di avere un’opinione opposta e critica) il motivo per il quale tutti parleranno di voi e delle vostre ragioni, ma anche perché questo tipo di gesto è l’unico altro estremo a cui tutti presteranno la più totale attenzione. Perché se da un lato c’è il racconto di successo di chi a vent’anni ha già due lauree con lodi e tre anni di contributi, dall’altro c’è il racconto di un morto suicida: il racconto di un fallimento.
(Probabilmente se le testate e le reti si esprimessero così a chiare lettere in merito a questo tipo di tragedia i parenti dei morti troverebbero estremamente irriguardosa l’attuale attenzione e il silenzio assordante che l’ha preceduta.)
E ora, e solamente ora, si comincia a prendere sul serio questo argomento. Perché “verba volant, mortui manent”, evidentemente. Scompaiono gli sfaticati e si cominciano a vedere dei ragazzi con un problema (che poi ci vada di mezzo anche l’ateneo nel discorso non è detto, ma intanto il problema si osserva).
C’è ovviamente chi trova il gesto estremo, in più legato ad una cosa da poco. Ma a queste persone dovrebbe venire spontaneo chiedersi: delle questioni che hanno portato i ragazzi alla morte si è mai parlato? È un problema degli ultimi anni? Gli studenti sono inondati da questionari di valutazione, richieste di feedback di vario tipo, eppure tutto da anni è sempre rimasto escluso dalla vulgata, dalle televisioni, relegato a discussioni da bar, a tavole rotonde ad articoli sporadici su pagine social e quotidiani (quest’ultime spesso con le classiche testimonianze condite di lacrime amare). Tutte cose di eguale impatto e utilità. Basti vedere come tutte le persone adulte e serie hanno visto i temi sollevati: questioni irrilevanti su cui si deve stringere i denti e passare oltre. “È così che va ed è sempre andato”, come si dice di qualsiasi stortura e idiozia nei sistemi amministrativi, sanitari eccetera.
E poi sono arrivati gli atti. Le prove conclamate che doveva essere qualcosa di più serio.
Evidentemente è solo davanti alla prova inequivocabile che le coscienze si smuovono. E davanti al fallimento giunge la consapevolezza.
Il successo di pochi (che ammanta il nostro quieto quotidiano) solitamente ci illude che tutto vada bene e ci fa cullare sugli allori, ma a molti fa palesare il proprio fallimento. E il fallimento ci mette sempre davanti ad un conto salato da pagare. Il fallimento per quanto lo si annunci, non lo si ferma e non si può prevedere come e quando avverrà.
Tutti sentivamo delle falle del sistema sanitario, poi è arrivato il covid e il collasso. Tutti sapevamo del marciume della politica e degli intrallazzi con la mafia, poi sono arrivate le inchieste. Tutti sapevamo dell’anti politica che avvelenava i dibattiti, poi è arrivato il Cavaliere e Grillo, con la retorica dei rottamatori.
Tutti sapevamo dei limiti delle università, tutti sentivamo storie di disagio e abbandono oppure storie di rabbia e frustrazione e poi sono arrivati i ragazzi di cui tanto si parla.
Finché il sole sorge e le strade sono rumorose il giusto, tutto ci appare tranquillo e una piccola lamentela non sembra connessa a qualcosa di più grande, ma assomiglia di più ad un piagnisteo. Ma un problema, per quanto bofonchiato, non rimane marginale per sempre.
Ed ecco che ad un certo punto la bolla scoppia e come un ladro nella notte arriva il fallimento.
Ma almeno in questa sede ci tengo a specificare: queste morti sono dei fallimenti. Ma non perché sono morti dei falliti, ma perché abbiamo fallito noi vivi.