di Domenico Savino
Ho già spiegato nel primo dei due articoli che precedono il presente, come la profezia del vescovo irlandese San Malachia, morto nel 1144, contenga l’elenco di centoundici brevi motti in lingua latina, ciascuno dei quali indicherebbe un tratto caratteristico di tutti i Papi che si sono succeduti a partire da Celestino II fino ai giorni nostri.
Dalla Profezia è possibile desumere che dopo il 111^ Papa (individuato col nome di Gloria Olivae (Gloria dell’olivo) e che è venuto a corrispondere a Benedetto XVI) l’ultima Santa Romana Chiesa, trovandosi in stato di persecuzione, si sarebbe prostituita (“In persecutione, extrema Sancta Romana Ecclesia sedebit”). Ciò in quanto il verbo sedére significa tra l’altro anche “prostituirsi”: dunque l’ultima Santa Romana Chiesa avrebbe apostatato, cioè rinnegato i propri dogmi di Fede, aprendo all’apparizione di un ultimo Papa, Petrus Romanus, che preluderebbe dopo molte tribolazioni alla futura distruzione di Roma ed al Giudizio dello “judex tremendus”.
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Qualcuno in passato ha considerato la profezia “spuria”, frutto di una eleborazione cinquecentesca e per questo essa è stata storicamente considerata un falso.
Nel secondo approfondimento ho cercato di spiegare come e perchè Benedetto XVI ha ritenuto, invece, di dover rispondere ad una domanda del giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald sulla Profezia in esame, così formulata: «Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato terminerebbe con il suo pontificato. E se lei fosse effettivamente l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora?».
La risposta di Papa Benedetto XVI è stata: “Tutto può essere”.
E ciò anche se anch’egli la riteneva come verosimilmente non ascrivibile a San Malachia. Infatti Ratzinger precisava: “Probabilmente questa profezia è nata nei circoli attorno a Filippo Neri. A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito, e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di Papi, che invece non era così”. E conclude: “Non per questo, però, si deve dedurre che finirà davvero. Piuttosto che la sua lista non era ancora abbastanza lunga!”.
Si è altresì documentato come questa Profezia contenga una serie straordinaria di “coincidenze” e “codici” che hanno consentito ad un sacerdote gesuita, René Thibaut, nel volume “La mystérieuse prophétie des Papes”, pubblicato – si noti! – nell’ormai lontano 1951, di prevedere per il 2012 (dunque con oltre 60 anni di anticipo e proprio sulla base della Profezia in esame) la sostanziale conclusione del ciclo dei Pontefici con queste parole: “Pensiamo che è proprio questo cambio di residenza papale che la Profezia dei Papi vede accadere dopo il 111° pontificato romano. Nel 2012, la Chiesa cattolica cesserà di essere chiamata “romana”.
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Ovviamente tutto ciò altro non sarebbe che un divertissment teologico-letterario, ove si considerasse la profezia del tutto “falsa”, come la ritenne per esempio (salvo essere smentito da recentissimi rinvenimenti documentali) padre Claude-François Ménestrier S.J., con il suo libro “Réfutation des Prophéties faussement attribuées à S. Malachie sur les élections des Papes” (Parigi, 1689).
Molti altri dopo di lui ritennero del pari che la Profezia non fosse di Malachia, tra cui lo stesso René Thibaut, di cui si è detto sopra, il quale tuttavia la considerò – riguardo al suo contenuto – attendibile e caratterizzata da elementi che lascerebbero vedere con chiarezza l’intervento divino nella sua rivelazione.
Al contrario nel 1887 l’abate Cucherat nel volume “La prophétie de la succession des Papes” aveva sostenuto la veridicità della Profezia. Malachia avrebbe avuto le sue visioni tra la fine del 1139 e l’inizio del 1140 durante la sua prima visita a Roma. Le avrebbe allora fissate in un manoscritto che avrebbe consegnato a Papa Innocenzo II per confortarlo nelle sue afflizioni. Questi poi l’avrebbe fatto riporre negli archivi vaticani e qui sarebbe rimasto sepolto fino al 1590, quando De Wyon ne sarebbe entrato in possesso.
In realtà abbiamo detto che il manoscritto era già noto prima di quella data. Non sarebbe stato dunque De Wyon a reperirlo per primo, tantopiù che lo stesso era monaco presso l’abbazia di San Benedetto in Polirone, in quello che oggi è il Comune di San Benedetto Po (Mantova), ove attendeva – tra l’altro – alla stesura della sua monumentale opera sull’Ordine benedettino, che sarà pubblicata solo nel 1595: “Lignum vitae, ornamentum et decus ecclesiae: in 5 libros divisum, in quibus totius sanctiss. religionis Divi Benedicti initia, viri dignitate, doctrina, sanctitate, ac principatu clari describuntur: & Fructus qui per eos S.R.E. accesserunt, fusissimè explícantur”.
Di là, dal monastero in cui si era ritirato, De Wyon si sarebbe sempre spostato poco ed a poca distanza, come quando recatosi a Reggio Emilia intratteneva corrispondenza con Ottavio Rossi (giovane e rinomato filologo, poeta e filosofo) come risulta dalle relative “Lettere del sig. Ottavio Rossi. Raccolte da Bartolomeo Fontana. Con gli argomenti, & nella tavola ridotte sotto a i loro capi. In Brescia per Bartolomeo Fontana”, 1621, pp. 96-97.
E’ da questo carteggio che apprendiamo come il De Wyon per “riformar in molti luoghi i suoi libri stampati” (cioè ristamparli in altre edizioni) si avvarrà a Roma della conoscenza ed intermediazione per l’appunto del Rossi, il quale lo informava peraltro che negli affari che lo riguardavano incontrava l’ostilità del Cardinale di Terranova [Simone Tagliavia d’Aragona duca di Terranova e Castelvetrano], sicchè al massimo si sarebbe forse potuto sperare nell’aiuto dell’Arcivescovo di Monreale [Ludovico II De Torres].
La corrispondenza, repertoriata nel volume sopraindicato, non indica la data delle missive, ma doveva trattarsi verosimilmente di un tempo successivo a quello del quale trattiamo, giacchè nel 1590 il Rossi era un giovane ventenne in procinto di addottorarsi a Padova.
Tuttavia questo segnala come il De Wyon avesse a Roma dei contatti e – come indicato dall’abate Cucherat – sembra più che probabile che intorno al 1590, grazie ad uno di questi, egli sia entrato in contatto con quella Profezia che – sappiamo – circolava almeno da qualche anno e ne sia rimasto profondamente colpito.
Come avrebbe dovuto considerarla De Wyon, anche ai fini del lavoro che stava ultimando?
Era un falso, con cui non “contaminare” il suo prezioso lavoro sull’Ordine benedettino o era invece un documento, “storico e affidabile”, uno “scoop” diremmo oggi, tanto importante da immaginare di inserirlo (come poi effettivamente fece) all’interno del “Lignum vitae” di prossima pubblicazione?
De Wyon era uomo troppo prudente per azzardare da subito la scelta della pubblicazione e troppo umile per affidarsi esclusivamente al proprio giudizio nella valutazione del manoscritto, sicchè, secondo quanto suggerito dal Padre Cucherat, si sarebbe avvalso della “consulenza” di uno dei maggiori esperti del tempo, per verificare se l’attribuzione dei motti contenuti nella Profezia fosse coerente riguardo a quelli passati e, conseguentemente, attendibile riguardo ai Papi futuri.
E chi poteva farlo meglio di Alfonso Chacón (in latino: Alphonsus Ciacconius, italianizzato in Alfonso Ciacconio), monaco domenicano, storico, filologo ed erudito spagnolo, che stava lavorando proprio ad una “Vitae et gesta summorum Pontificum a Christo Domino usque ad Clementem VIII,nec non S. R. E. Cardinalium cum eorumdem insignibus, pubblicata postuma nel 1601?
E’ così che con ogni probabilità andarono le cose, secondo quanto riferito proprio nel Lignum Vitae dallo stesso De Wyon. Egli, infatti, riferisce all’inizio della Profezia che “Malachia avrebbe scritto anche alcune opere, di cui finora non aveva avuto visione, tranne una profezia sui Sommi Pontefici, la quale, poiché era breve e, per quanto ne sapesse, non ancora stampata, ma desiderata da molti, veniva quindi da lui riportata” (Scripsisse fertur et ipse nonnulla opuscula, de quibus nihil vidi praeter quamdam Prophetiam de Summis Pontificibus, quae quia brevis est & nondum quod scia excusa & a amultis desiderata, hic a me apposita sit).
Poi, alla fine della Profezia, specifica che “Quae ad pontifices adjecta” ( cioè l’attribuzione e spiegazione dei primi 74 motti regnanti fino ad allora) non sono opera di Malachia, ma appunto di Chacón, che è l’interprete di queste profezie (Quae ad Pontifices adjecta, non sunt ipsius Malachiae, sed R.P.F. Alphonsi Giaconis, Ord. Praedicatorum, huius Prophetiae interpretis).
E tuttavia, tra il 1590 ed il 1595, mentre attendeva il responso di Chacón, o – avendolo ottenuto – mentre attendeva la pubblicazione della sua opera “Lignum vitae”, De Wyon, profondamente colpito da ciò di cui era venuto in possesso, decise di affiancare alla propria opera letteraria, cioè il Lignum Vitae, tre rappresentazioni pittoriche. Dirò adesso cose in parte già note, ma alcune non ancora evidenziate.
La prima di tali rappresentazioni, che ha per soggetto l’albero genealogico benedettino, si trova nella Abbazia di Scolca sul colle di Covignano (in provincia di Rimini), nella cui Biblioteca, una volta pubblicato, verrà conservato anche il “Lignum Vitae”, poi scomparso dopo l’invasione delle truppe napoleoniche.
Un altro quadro analogo, pure se di dimensioni maggiori, si trova nella Chiesa di Santa Maria di Loreto ad Alessandria, ed il terzo nella Chiesa di San Pietro a Perugia.
Riguardo alle prime due rappresentazioni pittoriche (nell’immagine sottostante a sinistra è raffigurata quella dell’Abbazia di Scolca), esse costituiscono una sorta di compendio iconografico dell’opera Lignum Vitae, riguardo alla quale De Wyon – come detto – era in attesa della pubblicazione.
Egli ne commissionò l’esecuzione, ideando un modello iconografico trionfale dell’Albero genealogico dell’Ordine benedettino che sarà utilizzato anche in seguito, come nel dipinto del 1721 del pittore J. G. Prechler (immagine a destra).
Nel dipinto presente presso l’Abbazia di Scolca (sopra a sinistra), l’immagine, contenente l’Albero genealogico di San Benedetto è realizzata tramite una incisione a bulino su varie lastre di rame, i cui fogli, una volta assemblati, incollati su tela, dipinti ed incorniciati, apparivano come un comune quadro.
L’opera è frutto proprio dell’idea e della committenza di Arnoldo De Wyon, mentre la stampa su rame venne realizzata dal calcografo veneziano Giacomo Franco nel 1594, vale a dire un anno prima della pubblicazione del Lignum Vitae.
Come è possibile vedere meglio anche nella immagine di dettaglio che segue, Benedetto, posto al centro nella fascia inferiore della calcografia, è considerato come la radice di un grande albero ai cui lati si sviluppano dodici frutti.
Alla destra del Santo, sono rappresentate le sei congregazioni spirituali (Camaldolesi, Vallombrosiani, Cistercensi, Olivetani, Celestinani, Umiliati) che ricevono la Regola; alla sinistra, le sei congregazioni temporali (Cavalieri di Ave, di Calatrava, di Alcantara, di Santa Maria della Mercede, di Montesia e di Santo Stefano) che ricevono la spada. Le congregazioni sono richiamate dai loro fondatori, ma anche dai vari uomini di Chiesa che ne favorirono lo sviluppo, disposti su sei livelli gerarchici concentrici.
Sul grande tronco si collocano i due abati Mauro e Placido, promotori della Regola in Francia e in Sicilia, fiancheggiati dai profeti Isaia e Geremia che rappresentano il collegamento tra la nascita dell’Ordine e le profezie del Vecchio Testamento. La chioma dell’albero si sviluppa in dodici rami in cui trovano posto, partendo dal basso, i pontefici, i cardinali, i martiri, i predicatori, i confessori e i monaci. In basso a sinistra, infine, secondo l’uso è raffigurato il committente, che è lo stesso De Wyon.
E’ necessario sottolineare come San Benedetto non sia raffigurato con il saio scuro dell’Ordine benedettino, ma con quello bianco degli Olivetani, in segno di devozione alla Vergine, ulteriore elemento che conferma la correlazione tra il Lignum Vitae (e più precisamente tra la Profezia di Malachia ivi inserita da De Wyon) e la calcografia in esame: il motto della profezia relativo al penultimo Papa, cioè “Gloria Olivae”, è qui rappresentato proprio dal trionfo dell’Ordine benedettino in cui il Santo Fondatore veste la tonaca del ramo più glorioso di esso, gli Olivetani.
Sullo sfondo si intravedono l’arcobaleno tra le nuvole, il sole, la stella mattutina, la falce della luna, e il fuoco: secondo taluni sarebbero elementi simbolici che richiamano il cap. 50, 6-12 del Libro del Siracide e che lì sono riferiti a Simone, figlio di Onia, sommo sacerdote, che nella sua vita riparò il Tempio e fortificò il santuario: “Come un astro mattutino fra le nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, come il sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come il fiore delle rose nella stagione di primavera, come un giglio lungo un corso d’acqua, come un germoglio d’albero d’incenso nella stagione estiva come fuoco e incenso su un braciere, come un vaso d’oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose”.
E’ un’interpretazione non del tutto convincente: mancano rose, fiori, gigli, germogli d’albero d’incenso e il vaso d’oro massiccio.
Inoltre, a ben vedere la luna non è affatto piena, ma è in parte adombrata: è cioè una mezzaluna. Si potrebbe dire di essa, con il quartultimo motto della Profezia di Malachia, che trattasi “de medietate lunae”.
Inoltre là, poco sopra la falce di luna, rifulge una stella sopra volute di fumo, che si alzano da fiamme che sembrano erompere dalla terra, terrorizzando le ultime file di persone in quell’idilliaco trionfo benedettino. Cos’è quella stella? Potremmo forse capirlo meglio dopo.
Quanto al sole, che nell’immagine fatica a farsi largo tra le nubi di un temporale e fa così splendere un arcobaleno, è plausibile il riferimento al terzultimo motto della Profezia: “de labore solis”.
Ecco allora che l’immagine ideata da De Wyon per l’Abbazia di Scolca è una sintesi iconografica proprio della parte finale della Profezia di Malachia: la “Gloria olivae” (penultimo motto della Profezia, rappresentato da San Benedetto che veste la tonaca bianca degli Olivetani) è inserita tra “De labore solis” (alla destra del Santo e terzultimo motto della medesima) e “De medietate lunae” (alla sinistra del Santo e quartultimo motto della medesima).
Tutto ciò è molto più che un’ipotesi.
Ne è conferma anche il grande dipinto che si trova nella Chiesa di San Pietro a Perugia (nell’immagine che segue), ove, oltretutto, viene evocata anche la suggestione dell’Apostasia della Chiesa: infatti l’ “Apoteosi dell’Ordine benedettino” (questa la denominazione del dipinto) disegna – se vista da lontano – il volto di un demone dagli occhi infuocati, la cui bocca feroce e spalancata è costituita dalla porta della Basilica.
Vale la pena di fare subito alcune precisazioni avvalendosi anche del Volume di Serafino Siepi sottoriportato:
- questa è in ordine cronologico la prima delle tre raffigurazioni commissionate da De Wyon, quella più vicina nel tempo alla “scoperta” della Profezia da parte sua;
- se tale scoperta, come detto sopra, è del 1590, la commessa per la realizzazione del quadro in esame è del 1592. E’ un tempo insolitamente breve, che segnala nel De Wyon quasi un’urgenza comunicativa, un ammonimento da trasmettere subito, senza frapporre indugio e senza neppure attendere la pubblicazione del Lignum Vitae (che infatti vedrà la luce tre anni dopo). Il quadro viene commissionato in tempi molto brevi, seppure 700 scudi veneziani (l’ingente prezzo pagato per l’opera) non fossero somma da reperirsi in poco tempo, nè facilmente si poteva scovare l’artista idoneo, nè gli intermediari per una città come Perugia che non era agevolmente raggiungibile da Mantova;
- si aggiunga che il quadro (anzi per la precisione il “telero”) è immenso, per una misura complessiva di quasi 90 metri quadri ed è catalogato come la seconda tela più grande d’Europa, dopo il Paradiso del Tintoretto, conservato nel palazzo ducale di Venezia. Vi sono dipinti quasi 300 religiosi, raffigurati anche oltre la grandezza naturale, che contornano l’immagine di San Benedetto;
- l’idea “apocalittica” della rappresentazione, con quella sorta di bizzarro e terrifico “arcimboldo sacro”, che trasforma le immagini dei corpi dei monaci in un mostro infernale, è proprio di De Wyon ed il Vassillacchi, l’artista che lo ha realizzato, ne è stato semplicemente un esecutore fedele e puntuale. Non a caso l’opera, finchè non se ne è scoperto l’arcano, è sempre stata giudicata dai critici di poco o alcun interesse, frutto di un’arida ispirazione e priva di originalità e arditezze pittoriche, nient’altro, insomma, che un diligente esempio di “dipinto realizzato su commissione con soggetto predefinito”;
- lo schema generale della raffigurazione non è dissimile da quelle che – come detto – saranno realizzate due anni dopo a Scolca e ad Alessandria, solo che lo sviluppo dell’ ”albero genealogico” avviene qui in orizzontale, anzichè in verticale;
- vi sono gli stessi personaggi, i medesimi Santi, i due profeti Geremia e Isaia, con l’aggiunta in alto, nei lati estremi del dipinto, di San Pietro a destra e di San Paolo a sinistra;
- sempre in alto, al centro della tela, c’è una scritta in latino: “Mittam tibi adiutorium – IIII Esd. II,” (“Io ti manderò un aiuto”) con l’indicazione della fonte da cui la citazione è tratta. E’ richiamata qui la versione c.d. greca del IV libro di Esdra, Cap. 2-18, espunta dal canone biblico riconosciuto dalla Chiesa latina dopo il Concilio di Trento.
Il testo che segue a quello riportato è consolatorio: Mittam tibi adiutorium pueros meos Esaiam et Hieremiam, ad quorum consilium sanctificavi et paravi tibi arbores duodecim gravatas variis fructibus et totidem fontes fluentes lac et mel et montes inmensos septem habentes rosam et lilium, in quibus gaudio replebo filios tuos…
Noli satagere, cum venerit enim dies pressurae et angustiae, alii plorabunt et tristes erunt, tu autem hilaris et copiosa eris.[1];
- in effetti sembra necessaria qui una “rassicurazione profetica” circa la vittoria sul Male e ciò perchè la composizione d’insieme dell’opera è tale da far emergere nella visione da lontano – come sopra accennato – un enorme volto mostruoso e luciferino, di cui San Benedetto, al centro del dipinto, diventa il naso, simile a quello d’un orco o di un cinghiale e di cui le bianche vesti degli abati, che sono ai suoi lati, diventano due formidabili zanne.
San Pietro e San Paolo, ai lati estremi del quadro si trasformano nelle orecchie aguzze del mostro.
In alto i ciuffi nerastri delle figure dei monaci appaiono come le corna di un animale e analogo effetto deformante ha l’affollarsi dei manti scuri dei monaci attorno alle orbite degli occhi, dei quali l’uno è fulgente come quello di un felino di notte, l’altro oscuro come di caligine. Davvero par di vedere “Caron dimonio, con occhi di bragia”;
- è in quelle orbite oculari, scavate tra la folla dei benedettini, che accanto alle pupille del demone disegnate dal sole e dalla mezzaluna, emerge (vedi immagine seguente) il luccichio di una stella, Venere, ad indicare rispettivamente la stella del mattino (perché è l’ultima a spegnersi al sorgere del sole) e la stella del tramonto (perché è la prima che si vede al sorgere della luna). Il sole sorge ad Est e tramonta ad Ovest: è una suggestione eccessiva pensare al travagliato pontificato di Woytila (de labore solis) ed al “tramondo dell’Occidente” di fronte all’ascesa della mezzaluna islamica ? (de medietatae lunae: fu nell’anno del pontificato di Luciani che si affermò la Rivoluzione khomeinista)
Sia come sia, anche in questa “Apoteosi” dell’Ordine benedettino sembra di scorgere un riferimento ai tre motti della Profezia già indicati. Anzitutto la “Gloria olivae” (penultimo motto della Profezia, rappresentato dall’Ordine benedettino stesso e dal suo fondatore San Benedetto, il cui motto è Pax, pace, della quale simbolo è l’ulivo), ma col saio nero, come oscura è l’intera rappresentazione. Poi anche qui il santo è inserito tra “De labore solis”, alla sua destra, e “De medietate lunae”, alla sua sinistra (immagini sopra).
Ma rispetto alle altre due raffigurazione, in questa prima opera del 1592 vi sono due differenze fondamentali:
- l’immagine dell’Apoteosi appare drammatica, perchè – come detto – disegna contemporaneamente quella di un demone pronto a divorare i fedeli, sicchè nella “Gloria Olivae” si va componendo, celato ad un primo sguardo, il Mistero d’iniquità, l’ombra cioè inquietante e diabolica dell’Apostasia della Chiesa, cui fa riferimento la frase che nella Profezia segue il motto Gloria Olivae: “In persecutione, Sancta Romane Ecclesia sedebit”, ovvero “nella persecuzione, la Santa Chiesa Romana si prostituirà”.
A quel tempo, contro il Protestantesimo che ne minacciva l’esistenza, l’immagine sembra solo ammonire i fedeli a non uscire dall’ortodossia cattolica. In un contesto profetico e, dunque sovratemporale, appare un monito che vale ancor più oggi, tempo in cui il pontificato di Francesco spinge la Chiesa sempre più verso l’apostasia e l’eresia protestante.
Vengono alla mente altre profezia, quelle di Anna Katharina Emmerick (1774-1824) beatificata da papa Giovanni Paolo II nel 2004, la mistica che nelle sue visioni aveva visto la compresenza di due Papi: «Mi è stato anche detto che Lucifero verrà liberato per un certo periodo cinquanta o sessanta anni prima dell’anno di Cristo 2000. Mi vennero indicate le date di molti altri eventi che non riesco a ricordare; ma un certo numero di demoni dovranno essere liberati molto prima di Lucifero, in modo che tentino gli uomini e servano come strumenti della giustizia divina».
«Vidi una strana chiesa che veniva costruita contro ogni regola… Non c’erano angeli a vigilare sulle operazioni di costruzione. In quella chiesa non c’era niente che venisse dall’alto… C’erano solo divisioni e caos. Si tratta probabilmente di una chiesa di umana creazione, che segue l’ultima moda…» (12 settembre 1820).
«Vidi cose deplorevoli: stavano giocando d’azzardo, bevendo e parlando in chiesa; stavano anche corteggiando le donne. Ogni sorta di abomini venivano perpetrati là. I sacerdoti permettevano tutto e dicevano la Messa con molta irriverenza. Vidi che pochi di loro erano ancora pii, e solo pochi avevano una sana visione delle cose. Tutte queste cose mi diedero tanta tristezza» (27 settembre 1820).
«Poi vidi che tutto ciò che riguardava il Protestantesimo stava prendendo gradualmente il sopravvento e la religione cattolica stava precipitando in una completa decadenza. La maggior parte dei sacerdoti erano attratti dalle dottrine seducenti ma false di giovani insegnanti, e tutti loro contribuivano all’opera di distruzione. In quei giorni, la Fede cadrà molto in basso, e sarà preservata solo in alcuni posti, in poche case e in poche famiglie che Dio ha protetto dai disastri e dalle guerre» (1820)
«Stavano costruendo una Chiesa grande, strana, e stravagante. Tutti dovevano essere ammessi in essa per essere uniti ed avere uguali diritti: evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione» (22 aprile 1823).
- la seconda differenza tra il “telero” di Perugia e l’immagine dell’Abbazia di Scolca è che nel primo una stella – come accennato – brilla in entrambi gli occhi, sia in quello di destra ove è posto il sole, che in quello di sinistra sopra le fiamme ed ove giace la mezzaluna.
Nel primo caso è la stella del mattino che si spegnerà mentre il sole tra nuvole cupe fatica (de labore solis) a splendere; nel secondo caso è la stella del tramonto, che si illumina in un cielo tetro, appena rischiarato da un mezzaluna (de medietate lunae).
Ora la “Stella matutina” può avere diversi ed anche opposti significati:
- può essere immagine di Lucifero, secondo il profeta Isaia: “Come sei caduto dal cielo, O Stella del Giorno, figlio dell’Alba! Come sei ridotto a terra, tu che hai abbassato le nazioni! (Isaia 14: 12)”. Al Profeta fa eco Gesù, quando disse ai discepoli: “Io vedevo Satana cadere dal cielo come folgore” (Luca 10, 18);
- può essere attributo della Vergine nelle litanie lauretane (Stella matutina);
- può essere icona di Cristo nel capitolo 22,16 dell’Apocalisse: Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino».
Poichè il capitolo 22 dell’Apocalisse inizia parlando dell’ Albero della vita (il lignum vitae), che sarà anche il titolo dell’opera di De Wyon, sembra logico pensare che la stella posta nell’occhio destro, a fianco del sole, sia il Cristo, inteso come “stella del mattino”.
L’altra stella del dipinto, posta invece nell’occhio sinistro a fianco della mezzaluna, è la stella del tramonto, posta sopra le fiamme dell’inferno. Viene da pensare che essa sia Lucifero.
Tornando all’immagine di Scolca (immagine seguente), lì è presente, invece, solo la stella del tramonto, perchè dall’altra parte, alla destra del Santo la stella non c’è: splende il sole (Cristo, Sole di Giustizia).
Dunque la stella posta a sinistra del Santo, la stella che brilla sulle fiamme, sembra rappresentare Satana. Dall’altra parte, al posto di essa, illuminato dal sole, splende l’arcobaleno, che è un simbolo per indicare la Madonna, stando almeno al sermone dell’Annunciazione di S. Antonio. Dunque nei due occhi appare simbolicamente rappresentata anche l’eterna lotta tra Maria e il Serpente antico ed è così che anche in questa immagine sembra incombere sul Trionfo benedettino un pericolo all’orizzonte, prefigurazione di qualcosa di “oscuro” che deve venire: “In persecutione, Sancta Romane Ecclesia sedebit”…
Alcune puntualizzazioni:
- la stella ad otto punte ha dunque natura ambivalente: rappresenta in primo luogo la Pasqua e diviene figura di Cristo risorto, immagine della «stella radiosa del mattino» (Ap 22, 16).Ma può rappresentare al contrario anche Lucifero. In tal caso essa assume carattere negativo ed esoterico e diviene interscambiabile con la stella a 5 punte massonica. Ne sono esempio le due statue dedicate a Lucifero (Spirito della Libertà e Genio alato) presenti a Torino e a Parigi (foto seguente).
Fa specie che lo stemma pontificale di Bergoglio rechi oggi una stella ad otto punte, frettolosamente sostituita a quella originaria a 5 punte (eguale a quella di quando era Vescovo di Buenos Aires). La cosa può apparire inquietante, se si pensa che la croce che indossa Francesco ha un incontrovertibile significato legato al 18 grado massonico del Rito scozzesee antico ed accettato.Ognuno, però, può trarre le conclusioni che crede e, quindi, anche quella che tutto ciò sia futto di pura casualità.
- Vale tuttavia la pena di aggiungere che delle tre raffigurazioni del trionfo dell’Ordine benedettino fatte eseguire da De Wyon una – come accennato – è conservata nella Chiesa di Santa Maria di Loreto ad Alessandria. Ma originariamente non era collocata lì. Vi fu trasportata solo dopo varie peregrinazioni da una vicina abbazia benedettina, che si chiamava Abbazia di San Pietro (come la chiesa di Perugia). Questa nel 1728 per ordine di Re Vittorio Amedeo II di Savoia venne demolita per la costruzione della nuova cittadella militare, insieme all’intero quartiere. Per un singolare ulteriore caso (?) il quartiere si chiamava “Bergoglio” e la Chiesa era quella di San Pietro in Bergoglio (vedi estratto della mappa storica di Alessandria nell’immagine che segue, con in evidenza la mappa dell’Abbazia e della Chiesa annessa).
- Una curiosità: si è detto la copia del Lignum Vitae che era depositata presso l’Abbazia di Scolca è scomparsa a seguito dell’invasione Napoleonica del 1796. In un libro pubblicato 2 anni prima, cioè nel 1794, forse quello depositato (o fatto depositare da De Wyon), nella parte finale della Profezia sarebbe scritto non che “judex tremendus iudicavit populum suum”, ma “vindicavit populum suum”: il giudice tremendo, cioè, non giudicherà, ma vendicherà il suo popolo.
Per un’altra strana coincidenza la parola Scolca – come si può constatare nel link che segue – significa… “vendetta”.
- Abbiamo accennato all’inizio come sia stato davvero sorprendente che dopo la “Declaratio” di rinuncia all’esercizio del ministero di Vescovo di Roma, il papa emerito Benedetto XVI abbia deciso di rispondere nel modo in cui si è detto ad una domanda su questa Profezia.
Ebbene il 27 maggio 2016 il giornalista corrispondente da Roma di EWTN Paul Badde realizzava un’intervista con l’arcivescovo Mons. Georg Gänswein, che era allora Prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI.
Chiedeva il giornalista: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa che è costruita sulla roccia di Pietro”, dice l’evangelista Matteo. Che ne pensa delle profezie di Malachia, che- per dirla in breve – provengono da San Filippo Neri e terminano con Papa Francesco nell’ordine dei Papi?”
Rispondeva Mons. Georg Gänswein: “Ieri 26 maggio, è stata la festa di San Filippo Neri. In effetti, se si considera la profezia e considerando come questa abbia sempre avuto una certa corrispondenza storica con i Papi menzionati, la cosa mi dà i brividi. Lo ammetto onestamente. Tuttavia, [la profezia] non è parte del Libro della Rivelazione; nessuno è obbligato ad accettare la profezia di San Malachia. Ma da un punto di vista storico, si deve dire: “Sì, è un campanello d’allarme.”
[1] Ti manderò un aiuto, i miei figli Isaia e Geremia, per il cui consiglio ho santificato e preparato per voi dodici alberi carichi di vari frutti e altrettante fontane dove scorre latte e miele e sette monti immensi con rose e gigli, nei quali riempirò di gioia i tuoi figli. Non siate in ansia, perché quando verrà il giorno del tormento e dell’angoscia, gli altri piangeranno e saranno tristi, ma voi sarete allegri e abbondanti.
Codice Ratzinger: le strane coincidenze della Profezia di Malachia (parte II)
di Domenico Savino
Ho già spiegato nel primo dei due articoli che precedono il presente, come la profezia del vescovo irlandese San Malachia, morto nel 1144, contenga l’elenco di centoundici brevi motti in lingua latina, ciascuno dei quali indicherebbe un tratto caratteristico di tutti i Papi che si sono succeduti a partire da Celestino II fino ai giorni nostri.
Dalla Profezia è possibile desumere che dopo il 111^ Papa (individuato col nome di Gloria Olivae (Gloria dell’olivo) e che è venuto a corrispondere a Benedetto XVI) l’ultima Santa Romana Chiesa, trovandosi in stato di persecuzione, si sarebbe prostituita (“In persecutione, extrema Sancta Romana Ecclesia sedebit”). Ciò in quanto il verbo sedére significa tra l’altro anche “prostituirsi”: dunque l’ultima Santa Romana Chiesa avrebbe apostatato, cioè rinnegato i propri dogmi di Fede, aprendo all’apparizione di un ultimo Papa, Petrus Romanus, che preluderebbe dopo molte tribolazioni alla futura distruzione di Roma ed al Giudizio dello “judex tremendus”.
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Qualcuno in passato ha considerato la profezia “spuria”, frutto di una eleborazione cinquecentesca e per questo essa è stata storicamente considerata un falso.
Nel secondo approfondimento ho cercato di spiegare come e perchè Benedetto XVI ha ritenuto, invece, di dover rispondere ad una domanda del giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald sulla Profezia in esame, così formulata: «Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato terminerebbe con il suo pontificato. E se lei fosse effettivamente l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora?».
La risposta di Papa Benedetto XVI è stata: “Tutto può essere”.
E ciò anche se anch’egli la riteneva come verosimilmente non ascrivibile a San Malachia. Infatti Ratzinger precisava: “Probabilmente questa profezia è nata nei circoli attorno a Filippo Neri. A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito, e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di Papi, che invece non era così”. E conclude: “Non per questo, però, si deve dedurre che finirà davvero. Piuttosto che la sua lista non era ancora abbastanza lunga!”.
Si è altresì documentato come questa Profezia contenga una serie straordinaria di “coincidenze” e “codici” che hanno consentito ad un sacerdote gesuita, René Thibaut, nel volume “La mystérieuse prophétie des Papes”, pubblicato – si noti! – nell’ormai lontano 1951, di prevedere per il 2012 (dunque con oltre 60 anni di anticipo e proprio sulla base della Profezia in esame) la sostanziale conclusione del ciclo dei Pontefici con queste parole: “Pensiamo che è proprio questo cambio di residenza papale che la Profezia dei Papi vede accadere dopo il 111° pontificato romano. Nel 2012, la Chiesa cattolica cesserà di essere chiamata “romana”.
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Ovviamente tutto ciò altro non sarebbe che un divertissment teologico-letterario, ove si considerasse la profezia del tutto “falsa”, come la ritenne per esempio (salvo essere smentito da recentissimi rinvenimenti documentali) padre Claude-François Ménestrier S.J., con il suo libro “Réfutation des Prophéties faussement attribuées à S. Malachie sur les élections des Papes” (Parigi, 1689).
Molti altri dopo di lui ritennero del pari che la Profezia non fosse di Malachia, tra cui lo stesso René Thibaut, di cui si è detto sopra, il quale tuttavia la considerò – riguardo al suo contenuto – attendibile e caratterizzata da elementi che lascerebbero vedere con chiarezza l’intervento divino nella sua rivelazione.
Al contrario nel 1887 l’abate Cucherat nel volume “La prophétie de la succession des Papes” aveva sostenuto la veridicità della Profezia. Malachia avrebbe avuto le sue visioni tra la fine del 1139 e l’inizio del 1140 durante la sua prima visita a Roma. Le avrebbe allora fissate in un manoscritto che avrebbe consegnato a Papa Innocenzo II per confortarlo nelle sue afflizioni. Questi poi l’avrebbe fatto riporre negli archivi vaticani e qui sarebbe rimasto sepolto fino al 1590, quando De Wyon ne sarebbe entrato in possesso.
In realtà abbiamo detto che il manoscritto era già noto prima di quella data. Non sarebbe stato dunque De Wyon a reperirlo per primo, tantopiù che lo stesso era monaco presso l’abbazia di San Benedetto in Polirone, in quello che oggi è il Comune di San Benedetto Po (Mantova), ove attendeva – tra l’altro – alla stesura della sua monumentale opera sull’Ordine benedettino, che sarà pubblicata solo nel 1595: “Lignum vitae, ornamentum et decus ecclesiae: in 5 libros divisum, in quibus totius sanctiss. religionis Divi Benedicti initia, viri dignitate, doctrina, sanctitate, ac principatu clari describuntur: & Fructus qui per eos S.R.E. accesserunt, fusissimè explícantur”.
Di là, dal monastero in cui si era ritirato, De Wyon si sarebbe sempre spostato poco ed a poca distanza, come quando recatosi a Reggio Emilia intratteneva corrispondenza con Ottavio Rossi (giovane e rinomato filologo, poeta e filosofo) come risulta dalle relative “Lettere del sig. Ottavio Rossi. Raccolte da Bartolomeo Fontana. Con gli argomenti, & nella tavola ridotte sotto a i loro capi. In Brescia per Bartolomeo Fontana”, 1621, pp. 96-97.
E’ da questo carteggio che apprendiamo come il De Wyon per “riformar in molti luoghi i suoi libri stampati” (cioè ristamparli in altre edizioni) si avvarrà a Roma della conoscenza ed intermediazione per l’appunto del Rossi, il quale lo informava peraltro che negli affari che lo riguardavano incontrava l’ostilità del Cardinale di Terranova [Simone Tagliavia d’Aragona duca di Terranova e Castelvetrano], sicchè al massimo si sarebbe forse potuto sperare nell’aiuto dell’Arcivescovo di Monreale [Ludovico II De Torres].
La corrispondenza, repertoriata nel volume sopraindicato, non indica la data delle missive, ma doveva trattarsi verosimilmente di un tempo successivo a quello del quale trattiamo, giacchè nel 1590 il Rossi era un giovane ventenne in procinto di addottorarsi a Padova.
Tuttavia questo segnala come il De Wyon avesse a Roma dei contatti e – come indicato dall’abate Cucherat – sembra più che probabile che intorno al 1590, grazie ad uno di questi, egli sia entrato in contatto con quella Profezia che – sappiamo – circolava almeno da qualche anno e ne sia rimasto profondamente colpito.
Come avrebbe dovuto considerarla De Wyon, anche ai fini del lavoro che stava ultimando?
Era un falso, con cui non “contaminare” il suo prezioso lavoro sull’Ordine benedettino o era invece un documento, “storico e affidabile”, uno “scoop” diremmo oggi, tanto importante da immaginare di inserirlo (come poi effettivamente fece) all’interno del “Lignum vitae” di prossima pubblicazione?
De Wyon era uomo troppo prudente per azzardare da subito la scelta della pubblicazione e troppo umile per affidarsi esclusivamente al proprio giudizio nella valutazione del manoscritto, sicchè, secondo quanto suggerito dal Padre Cucherat, si sarebbe avvalso della “consulenza” di uno dei maggiori esperti del tempo, per verificare se l’attribuzione dei motti contenuti nella Profezia fosse coerente riguardo a quelli passati e, conseguentemente, attendibile riguardo ai Papi futuri.
E chi poteva farlo meglio di Alfonso Chacón (in latino: Alphonsus Ciacconius, italianizzato in Alfonso Ciacconio), monaco domenicano, storico, filologo ed erudito spagnolo, che stava lavorando proprio ad una “Vitae et gesta summorum Pontificum a Christo Domino usque ad Clementem VIII,nec non S. R. E. Cardinalium cum eorumdem insignibus, pubblicata postuma nel 1601?
E’ così che con ogni probabilità andarono le cose, secondo quanto riferito proprio nel Lignum Vitae dallo stesso De Wyon. Egli, infatti, riferisce all’inizio della Profezia che “Malachia avrebbe scritto anche alcune opere, di cui finora non aveva avuto visione, tranne una profezia sui Sommi Pontefici, la quale, poiché era breve e, per quanto ne sapesse, non ancora stampata, ma desiderata da molti, veniva quindi da lui riportata” (Scripsisse fertur et ipse nonnulla opuscula, de quibus nihil vidi praeter quamdam Prophetiam de Summis Pontificibus, quae quia brevis est & nondum quod scia excusa & a amultis desiderata, hic a me apposita sit).
Poi, alla fine della Profezia, specifica che “Quae ad pontifices adjecta” ( cioè l’attribuzione e spiegazione dei primi 74 motti regnanti fino ad allora) non sono opera di Malachia, ma appunto di Chacón, che è l’interprete di queste profezie (Quae ad Pontifices adjecta, non sunt ipsius Malachiae, sed R.P.F. Alphonsi Giaconis, Ord. Praedicatorum, huius Prophetiae interpretis).
E tuttavia, tra il 1590 ed il 1595, mentre attendeva il responso di Chacón, o – avendolo ottenuto – mentre attendeva la pubblicazione della sua opera “Lignum vitae”, De Wyon, profondamente colpito da ciò di cui era venuto in possesso, decise di affiancare alla propria opera letteraria, cioè il Lignum Vitae, tre rappresentazioni pittoriche. Dirò adesso cose in parte già note, ma alcune non ancora evidenziate.
La prima di tali rappresentazioni, che ha per soggetto l’albero genealogico benedettino, si trova nella Abbazia di Scolca sul colle di Covignano (in provincia di Rimini), nella cui Biblioteca, una volta pubblicato, verrà conservato anche il “Lignum Vitae”, poi scomparso dopo l’invasione delle truppe napoleoniche.
Un altro quadro analogo, pure se di dimensioni maggiori, si trova nella Chiesa di Santa Maria di Loreto ad Alessandria, ed il terzo nella Chiesa di San Pietro a Perugia.
Riguardo alle prime due rappresentazioni pittoriche (nell’immagine sottostante a sinistra è raffigurata quella dell’Abbazia di Scolca), esse costituiscono una sorta di compendio iconografico dell’opera Lignum Vitae, riguardo alla quale De Wyon – come detto – era in attesa della pubblicazione.
Egli ne commissionò l’esecuzione, ideando un modello iconografico trionfale dell’Albero genealogico dell’Ordine benedettino che sarà utilizzato anche in seguito, come nel dipinto del 1721 del pittore J. G. Prechler (immagine a destra).
Nel dipinto presente presso l’Abbazia di Scolca (sopra a sinistra), l’immagine, contenente l’Albero genealogico di San Benedetto è realizzata tramite una incisione a bulino su varie lastre di rame, i cui fogli, una volta assemblati, incollati su tela, dipinti ed incorniciati, apparivano come un comune quadro.
L’opera è frutto proprio dell’idea e della committenza di Arnoldo De Wyon, mentre la stampa su rame venne realizzata dal calcografo veneziano Giacomo Franco nel 1594, vale a dire un anno prima della pubblicazione del Lignum Vitae.
Come è possibile vedere meglio anche nella immagine di dettaglio che segue, Benedetto, posto al centro nella fascia inferiore della calcografia, è considerato come la radice di un grande albero ai cui lati si sviluppano dodici frutti.
Alla destra del Santo, sono rappresentate le sei congregazioni spirituali (Camaldolesi, Vallombrosiani, Cistercensi, Olivetani, Celestinani, Umiliati) che ricevono la Regola; alla sinistra, le sei congregazioni temporali (Cavalieri di Ave, di Calatrava, di Alcantara, di Santa Maria della Mercede, di Montesia e di Santo Stefano) che ricevono la spada. Le congregazioni sono richiamate dai loro fondatori, ma anche dai vari uomini di Chiesa che ne favorirono lo sviluppo, disposti su sei livelli gerarchici concentrici.
Sul grande tronco si collocano i due abati Mauro e Placido, promotori della Regola in Francia e in Sicilia, fiancheggiati dai profeti Isaia e Geremia che rappresentano il collegamento tra la nascita dell’Ordine e le profezie del Vecchio Testamento. La chioma dell’albero si sviluppa in dodici rami in cui trovano posto, partendo dal basso, i pontefici, i cardinali, i martiri, i predicatori, i confessori e i monaci. In basso a sinistra, infine, secondo l’uso è raffigurato il committente, che è lo stesso De Wyon.
E’ necessario sottolineare come San Benedetto non sia raffigurato con il saio scuro dell’Ordine benedettino, ma con quello bianco degli Olivetani, in segno di devozione alla Vergine, ulteriore elemento che conferma la correlazione tra il Lignum Vitae (e più precisamente tra la Profezia di Malachia ivi inserita da De Wyon) e la calcografia in esame: il motto della profezia relativo al penultimo Papa, cioè “Gloria Olivae”, è qui rappresentato proprio dal trionfo dell’Ordine benedettino in cui il Santo Fondatore veste la tonaca del ramo più glorioso di esso, gli Olivetani.
Sullo sfondo si intravedono l’arcobaleno tra le nuvole, il sole, la stella mattutina, la falce della luna, e il fuoco: secondo taluni sarebbero elementi simbolici che richiamano il cap. 50, 6-12 del Libro del Siracide e che lì sono riferiti a Simone, figlio di Onia, sommo sacerdote, che nella sua vita riparò il Tempio e fortificò il santuario: “Come un astro mattutino fra le nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, come il sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come il fiore delle rose nella stagione di primavera, come un giglio lungo un corso d’acqua, come un germoglio d’albero d’incenso nella stagione estiva come fuoco e incenso su un braciere, come un vaso d’oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose”.
E’ un’interpretazione non del tutto convincente: mancano rose, fiori, gigli, germogli d’albero d’incenso e il vaso d’oro massiccio.
Inoltre, a ben vedere la luna non è affatto piena, ma è in parte adombrata: è cioè una mezzaluna. Si potrebbe dire di essa, con il quartultimo motto della Profezia di Malachia, che trattasi “de medietate lunae”.
Inoltre là, poco sopra la falce di luna, rifulge una stella sopra volute di fumo, che si alzano da fiamme che sembrano erompere dalla terra, terrorizzando le ultime file di persone in quell’idilliaco trionfo benedettino. Cos’è quella stella? Potremmo forse capirlo meglio dopo.
Quanto al sole, che nell’immagine fatica a farsi largo tra le nubi di un temporale e fa così splendere un arcobaleno, è plausibile il riferimento al terzultimo motto della Profezia: “de labore solis”.
Ecco allora che l’immagine ideata da De Wyon per l’Abbazia di Scolca è una sintesi iconografica proprio della parte finale della Profezia di Malachia: la “Gloria olivae” (penultimo motto della Profezia, rappresentato da San Benedetto che veste la tonaca bianca degli Olivetani) è inserita tra “De labore solis” (alla destra del Santo e terzultimo motto della medesima) e “De medietate lunae” (alla sinistra del Santo e quartultimo motto della medesima).
Tutto ciò è molto più che un’ipotesi.
Ne è conferma anche il grande dipinto che si trova nella Chiesa di San Pietro a Perugia (nell’immagine che segue), ove, oltretutto, viene evocata anche la suggestione dell’Apostasia della Chiesa: infatti l’ “Apoteosi dell’Ordine benedettino” (questa la denominazione del dipinto) disegna – se vista da lontano – il volto di un demone dagli occhi infuocati, la cui bocca feroce e spalancata è costituita dalla porta della Basilica.
Vale la pena di fare subito alcune precisazioni avvalendosi anche del Volume di Serafino Siepi sottoriportato:
- questa è in ordine cronologico la prima delle tre raffigurazioni commissionate da De Wyon, quella più vicina nel tempo alla “scoperta” della Profezia da parte sua;
- se tale scoperta, come detto sopra, è del 1590, la commessa per la realizzazione del quadro in esame è del 1592. E’ un tempo insolitamente breve, che segnala nel De Wyon quasi un’urgenza comunicativa, un ammonimento da trasmettere subito, senza frapporre indugio e senza neppure attendere la pubblicazione del Lignum Vitae (che infatti vedrà la luce tre anni dopo). Il quadro viene commissionato in tempi molto brevi, seppure 700 scudi veneziani (l’ingente prezzo pagato per l’opera) non fossero somma da reperirsi in poco tempo, nè facilmente si poteva scovare l’artista idoneo, nè gli intermediari per una città come Perugia che non era agevolmente raggiungibile da Mantova;
- si aggiunga che il quadro (anzi per la precisione il “telero”) è immenso, per una misura complessiva di quasi 90 metri quadri ed è catalogato come la seconda tela più grande d’Europa, dopo il Paradiso del Tintoretto, conservato nel palazzo ducale di Venezia. Vi sono dipinti quasi 300 religiosi, raffigurati anche oltre la grandezza naturale, che contornano l’immagine di San Benedetto;
- l’idea “apocalittica” della rappresentazione, con quella sorta di bizzarro e terrifico “arcimboldo sacro”, che trasforma le immagini dei corpi dei monaci in un mostro infernale, è proprio di De Wyon ed il Vassillacchi, l’artista che lo ha realizzato, ne è stato semplicemente un esecutore fedele e puntuale. Non a caso l’opera, finchè non se ne è scoperto l’arcano, è sempre stata giudicata dai critici di poco o alcun interesse, frutto di un’arida ispirazione e priva di originalità e arditezze pittoriche, nient’altro, insomma, che un diligente esempio di “dipinto realizzato su commissione con soggetto predefinito”;
- lo schema generale della raffigurazione non è dissimile da quelle che – come detto – saranno realizzate due anni dopo a Scolca e ad Alessandria, solo che lo sviluppo dell’ ”albero genealogico” avviene qui in orizzontale, anzichè in verticale;
- vi sono gli stessi personaggi, i medesimi Santi, i due profeti Geremia e Isaia, con l’aggiunta in alto, nei lati estremi del dipinto, di San Pietro a destra e di San Paolo a sinistra;
- sempre in alto, al centro della tela, c’è una scritta in latino: “Mittam tibi adiutorium – IIII Esd. II,” (“Io ti manderò un aiuto”) con l’indicazione della fonte da cui la citazione è tratta. E’ richiamata qui la versione c.d. greca del IV libro di Esdra, Cap. 2-18, espunta dal canone biblico riconosciuto dalla Chiesa latina dopo il Concilio di Trento.
Il testo che segue a quello riportato è consolatorio: Mittam tibi adiutorium pueros meos Esaiam et Hieremiam, ad quorum consilium sanctificavi et paravi tibi arbores duodecim gravatas variis fructibus et totidem fontes fluentes lac et mel et montes inmensos septem habentes rosam et lilium, in quibus gaudio replebo filios tuos…
Noli satagere, cum venerit enim dies pressurae et angustiae, alii plorabunt et tristes erunt, tu autem hilaris et copiosa eris.[1];
- in effetti sembra necessaria qui una “rassicurazione profetica” circa la vittoria sul Male e ciò perchè la composizione d’insieme dell’opera è tale da far emergere nella visione da lontano – come sopra accennato – un enorme volto mostruoso e luciferino, di cui San Benedetto, al centro del dipinto, diventa il naso, simile a quello d’un orco o di un cinghiale e di cui le bianche vesti degli abati, che sono ai suoi lati, diventano due formidabili zanne.
San Pietro e San Paolo, ai lati estremi del quadro si trasformano nelle orecchie aguzze del mostro.
In alto i ciuffi nerastri delle figure dei monaci appaiono come le corna di un animale e analogo effetto deformante ha l’affollarsi dei manti scuri dei monaci attorno alle orbite degli occhi, dei quali l’uno è fulgente come quello di un felino di notte, l’altro oscuro come di caligine. Davvero par di vedere “Caron dimonio, con occhi di bragia”;
- è in quelle orbite oculari, scavate tra la folla dei benedettini, che accanto alle pupille del demone disegnate dal sole e dalla mezzaluna, emerge (vedi immagine seguente) il luccichio di una stella, Venere, ad indicare rispettivamente la stella del mattino (perché è l’ultima a spegnersi al sorgere del sole) e la stella del tramonto (perché è la prima che si vede al sorgere della luna). Il sole sorge ad Est e tramonta ad Ovest: è una suggestione eccessiva pensare al travagliato pontificato di Woytila (de labore solis) ed al “tramondo dell’Occidente” di fronte all’ascesa della mezzaluna islamica ? (de medietatae lunae: fu nell’anno del pontificato di Luciani che si affermò la Rivoluzione khomeinista)
Sia come sia, anche in questa “Apoteosi” dell’Ordine benedettino sembra di scorgere un riferimento ai tre motti della Profezia già indicati. Anzitutto la “Gloria olivae” (penultimo motto della Profezia, rappresentato dall’Ordine benedettino stesso e dal suo fondatore San Benedetto, il cui motto è Pax, pace, della quale simbolo è l’ulivo), ma col saio nero, come oscura è l’intera rappresentazione. Poi anche qui il santo è inserito tra “De labore solis”, alla sua destra, e “De medietate lunae”, alla sua sinistra (immagini sopra).
Ma rispetto alle altre due raffigurazione, in questa prima opera del 1592 vi sono due differenze fondamentali:
- l’immagine dell’Apoteosi appare drammatica, perchè – come detto – disegna contemporaneamente quella di un demone pronto a divorare i fedeli, sicchè nella “Gloria Olivae” si va componendo, celato ad un primo sguardo, il Mistero d’iniquità, l’ombra cioè inquietante e diabolica dell’Apostasia della Chiesa, cui fa riferimento la frase che nella Profezia segue il motto Gloria Olivae: “In persecutione, Sancta Romane Ecclesia sedebit”, ovvero “nella persecuzione, la Santa Chiesa Romana si prostituirà”.
A quel tempo, contro il Protestantesimo che ne minacciva l’esistenza, l’immagine sembra solo ammonire i fedeli a non uscire dall’ortodossia cattolica. In un contesto profetico e, dunque sovratemporale, appare un monito che vale ancor più oggi, tempo in cui il pontificato di Francesco spinge la Chiesa sempre più verso l’apostasia e l’eresia protestante.
Vengono alla mente altre profezia, quelle di Anna Katharina Emmerick (1774-1824) beatificata da papa Giovanni Paolo II nel 2004, la mistica che nelle sue visioni aveva visto la compresenza di due Papi: «Mi è stato anche detto che Lucifero verrà liberato per un certo periodo cinquanta o sessanta anni prima dell’anno di Cristo 2000. Mi vennero indicate le date di molti altri eventi che non riesco a ricordare; ma un certo numero di demoni dovranno essere liberati molto prima di Lucifero, in modo che tentino gli uomini e servano come strumenti della giustizia divina».
«Vidi una strana chiesa che veniva costruita contro ogni regola… Non c’erano angeli a vigilare sulle operazioni di costruzione. In quella chiesa non c’era niente che venisse dall’alto… C’erano solo divisioni e caos. Si tratta probabilmente di una chiesa di umana creazione, che segue l’ultima moda…» (12 settembre 1820).
«Vidi cose deplorevoli: stavano giocando d’azzardo, bevendo e parlando in chiesa; stavano anche corteggiando le donne. Ogni sorta di abomini venivano perpetrati là. I sacerdoti permettevano tutto e dicevano la Messa con molta irriverenza. Vidi che pochi di loro erano ancora pii, e solo pochi avevano una sana visione delle cose. Tutte queste cose mi diedero tanta tristezza» (27 settembre 1820).
«Poi vidi che tutto ciò che riguardava il Protestantesimo stava prendendo gradualmente il sopravvento e la religione cattolica stava precipitando in una completa decadenza. La maggior parte dei sacerdoti erano attratti dalle dottrine seducenti ma false di giovani insegnanti, e tutti loro contribuivano all’opera di distruzione. In quei giorni, la Fede cadrà molto in basso, e sarà preservata solo in alcuni posti, in poche case e in poche famiglie che Dio ha protetto dai disastri e dalle guerre» (1820)
«Stavano costruendo una Chiesa grande, strana, e stravagante. Tutti dovevano essere ammessi in essa per essere uniti ed avere uguali diritti: evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione» (22 aprile 1823).
- la seconda differenza tra il “telero” di Perugia e l’immagine dell’Abbazia di Scolca è che nel primo una stella – come accennato – brilla in entrambi gli occhi, sia in quello di destra ove è posto il sole, che in quello di sinistra sopra le fiamme ed ove giace la mezzaluna.
Nel primo caso è la stella del mattino che si spegnerà mentre il sole tra nuvole cupe fatica (de labore solis) a splendere; nel secondo caso è la stella del tramonto, che si illumina in un cielo tetro, appena rischiarato da un mezzaluna (de medietate lunae).
Ora la “Stella matutina” può avere diversi ed anche opposti significati:
- può essere immagine di Lucifero, secondo il profeta Isaia: “Come sei caduto dal cielo, O Stella del Giorno, figlio dell’Alba! Come sei ridotto a terra, tu che hai abbassato le nazioni! (Isaia 14: 12)”. Al Profeta fa eco Gesù, quando disse ai discepoli: “Io vedevo Satana cadere dal cielo come folgore” (Luca 10, 18);
- può essere attributo della Vergine nelle litanie lauretane (Stella matutina);
- può essere icona di Cristo nel capitolo 22,16 dell’Apocalisse: Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino».
Poichè il capitolo 22 dell’Apocalisse inizia parlando dell’ Albero della vita (il lignum vitae), che sarà anche il titolo dell’opera di De Wyon, sembra logico pensare che la stella posta nell’occhio destro, a fianco del sole, sia il Cristo, inteso come “stella del mattino”.
L’altra stella del dipinto, posta invece nell’occhio sinistro a fianco della mezzaluna, è la stella del tramonto, posta sopra le fiamme dell’inferno. Viene da pensare che essa sia Lucifero.
Tornando all’immagine di Scolca (immagine seguente), lì è presente, invece, solo la stella del tramonto, perchè dall’altra parte, alla destra del Santo la stella non c’è: splende il sole (Cristo, Sole di Giustizia).
Dunque la stella posta a sinistra del Santo, la stella che brilla sulle fiamme, sembra rappresentare Satana. Dall’altra parte, al posto di essa, illuminato dal sole, splende l’arcobaleno, che è un simbolo per indicare la Madonna, stando almeno al sermone dell’Annunciazione di S. Antonio. Dunque nei due occhi appare simbolicamente rappresentata anche l’eterna lotta tra Maria e il Serpente antico ed è così che anche in questa immagine sembra incombere sul Trionfo benedettino un pericolo all’orizzonte, prefigurazione di qualcosa di “oscuro” che deve venire: “In persecutione, Sancta Romane Ecclesia sedebit”…
Alcune puntualizzazioni:
- la stella ad otto punte ha dunque natura ambivalente: rappresenta in primo luogo la Pasqua e diviene figura di Cristo risorto, immagine della «stella radiosa del mattino» (Ap 22, 16).
Ma può rappresentare al contrario anche Lucifero. In tal caso essa assume carattere negativo ed esoterico e diviene interscambiabile con la stella a 5 punte massonica.
Ne sono esempio le due statue dedicate a Lucifero (Spirito della Libertà e Genio alato) presenti a Torino e a Parigi (foto seguente).
Fa specie che lo stemma pontificale di Bergoglio rechi oggi una stella ad otto punte, frettolosamente sostituita a quella originaria a 5 punte (eguale a quella di quando era Vescovo di Buenos Aires). La cosa può apparire inquietante, se si pensa che la croce che indossa Francesco ha un incontrovertibile significato legato al 18 grado massonico del Rito scozzesee antico ed accettato.
Ognuno, però, può trarre le conclusioni che crede e, quindi, anche quella che tutto ciò sia futto di pura casualità.
- Vale tuttavia la pena di aggiungere che delle tre raffigurazioni del trionfo dell’Ordine benedettino fatte eseguire da De Wyon una – come accennato – è conservata nella Chiesa di Santa Maria di Loreto ad Alessandria.
Ma originariamente non era collocata lì.
Vi fu trasportata solo dopo varie peregrinazioni da una vicina abbazia benedettina, che si chiamava Abbazia di San Pietro (come la chiesa di Perugia).
Questa nel 1728 per ordine di Re Vittorio Amedeo II di Savoia venne demolita per la costruzione della nuova cittadella militare, insieme all’intero quartiere.
Per un singolare ulteriore caso (?) il quartiere si chiamava “Bergoglio” e la Chiesa era quella di San Pietro in Bergoglio (vedi estratto della mappa storica di Alessandria nell’immagine che segue, con in evidenza la mappa dell’Abbazia e della Chiesa annessa).
- Una curiosità: si è detto la copia del Lignum Vitae che era depositata presso l’Abbazia di Scolca è scomparsa a seguito dell’invasione Napoleonica del 1796. In un libro pubblicato 2 anni prima, cioè nel 1794, forse quello depositato (o fatto depositare da De Wyon), nella parte finale della Profezia sarebbe scritto non che “judex tremendus iudicavit populum suum”, ma “vindicavit populum suum”: il giudice tremendo, cioè, non giudicherà, ma vendicherà il suo popolo.
Per un’altra strana coincidenza la parola Scolca – come si può constatare nel link che segue – significa… “vendetta”.
- Abbiamo accennato all’inizio come sia stato davvero sorprendente che dopo la “Declaratio” di rinuncia all’esercizio del ministero di Vescovo di Roma, il papa emerito Benedetto XVI abbia deciso di rispondere nel modo in cui si è detto ad una domanda su questa Profezia.
Ebbene il 27 maggio 2016 il giornalista corrispondente da Roma di EWTN Paul Badde realizzava un’intervista con l’arcivescovo Mons. Georg Gänswein, che era allora Prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI.
Chiedeva il giornalista: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa che è costruita sulla roccia di Pietro”, dice l’evangelista Matteo. Che ne pensa delle profezie di Malachia, che- per dirla in breve – provengono da San Filippo Neri e terminano con Papa Francesco nell’ordine dei Papi?”
Rispondeva Mons. Georg Gänswein: “Ieri 26 maggio, è stata la festa di San Filippo Neri. In effetti, se si considera la profezia e considerando come questa abbia sempre avuto una certa corrispondenza storica con i Papi menzionati, la cosa mi dà i brividi. Lo ammetto onestamente. Tuttavia, [la profezia] non è parte del Libro della Rivelazione; nessuno è obbligato ad accettare la profezia di San Malachia. Ma da un punto di vista storico, si deve dire: “Sì, è un campanello d’allarme.”
[1] Ti manderò un aiuto, i miei figli Isaia e Geremia, per il cui consiglio ho santificato e preparato per voi dodici alberi carichi di vari frutti e altrettante fontane dove scorre latte e miele e sette monti immensi con rose e gigli, nei quali riempirò di gioia i tuoi figli. Non siate in ansia, perché quando verrà il giorno del tormento e dell’angoscia, gli altri piangeranno e saranno tristi, ma voi sarete allegri e abbondanti.