Di Giorgia Natalini
Diana Biondi ha deciso di togliersi la vita per un esame universitario. Aveva 27 anni ed era iscritta a Lettere Moderne all’università Federico II di Napoli. Il suo grido di disperazione, soffocato, è lo stesso di tanti e tante coetanei e coetanee che non ce l’hanno fatta. Schiacciati da un sistema in cui la competizione è quel fiume sotterraneo in cui tutti e tutte si immergono senza poter fare altrimenti.
La sua forza è oramai incontrollabile, fa perdere il senso del percorso di formazione, provoca un distacco interiore enorme.
La persona è alienata, è solo una matricola d’altronde. Non ha interessi, propensioni, desideri, passioni, sogni al di fuori dello studio estremamente dettagliato di numerose pagine, finalizzato all’acquisizione di un voto.
Un numero che moltiplicato per il numero dei crediti che vale e sommato ad altri numeri, frutto della stessa moltiplicazione, diviso per una cifra di crediti complessiva rappresenterà il tanto ambito quanto sofferto percorso universitario.
Anni di vita sono una questione di numeri.
Cinque anni per la precisione.
“Quanto hai preso all’esame?”, “Che media hai?”, “Quando finisci gli esami?”, “Quando ti laurei?”, “Quando inizi a lavorare?”
La formazione non è una gara a chi arriva per primo. Non dovrebbe seguire le logiche di questo mondo scellerato in cui la produttività è il comune denominatore di tutte le azioni umane. Un mondo dove il fallimento non può esistere, perché comporterebbe un rallentamento e delle pause che non ci si può permettere.
Il ticchettio delle lancette misura il gioco a tempo che si sta perdendo e aumenta il senso di estrema inadeguatezza. Alimenta, inoltre, il cattivo rapporto che ognuno ha con sé stesso e rende ciechi rispetto alle dinamiche del gioco: si prova rabbia e disprezzo perché non si è riusciti a giocare come gli altri, che rimangono una minaccia costante, incapaci di vedere il disagio comune. Infine si crede di aver perso la stima delle persone che dovrebbero amarci indipendentemente dai risultati ottenuti.
Il valore personale non dipende da un numero.
È necessario ripensare un intero sistema socio-culturale, non più schiavo di quello esclusivamente economico, che ponga al centro prima di tutto la persona nella sua unicità.
La scuola e l’Università devono essere luoghi di ascolto e di legittimazione della persona, devono essere spazi di cura accoglienti e non mere strutture dell’omologazione.
segui °Sorpasso su Instagram