Di Edoardo Maria Pedrelli
“Odio gli indifferenti” diceva Antonio Gramsci, ed io come altri necrofagi mi servo di questa piccola citazione per introdurvi nell’articolo di oggi.
Bazzicando su non so se si può dire Facebook mi sono imbattuto in un articolo del giornale online del mio paese che raccontava del salvataggio da parte di un quindicenne di una signora anziana che ha avuto un malore a bordo dell’autobus. Questo mi ha riportato alla mente un episodio che ho personalmente vissuto proprio sullo stesso autobus quando frequentavo il liceo.
Ogni santo giorno prendevo quell’autobus strapieno di studenti miei coetanei e per par condicio tra la mia sociofobia e il mio altruismo decidevo sempre di stare in piedi al centro dell’autobus cosicché potessi lasciare il posto che avrei occupato a chi ne avesse più bisogno.
Fatto sta che l’autobus si riempe come al solito e ritrovo al mio fianco delle altre persone costrette in piedi, tra le quali un ragazzo. Entrate per un attimo nei miei panni: un ragazzino annoiato e assonnato che sta sull’autobus che lo porterà a scuola dove passera un’intensa mattinata, che quindi si gode il viaggio nella più grande gara di fissazione del vuoto.
A un certo punto la coda del mio occhio vede quel ragazzo tremare e sbilanciarsi in avanti e indietro fino a quando non mi casca a terra. Panico.
L’autobus si fa silenzioso, lo sguardo degli altri ragazzi si fa vivo come quello di un gufo spaventato, le persone iniziano a smuoversi e ad alzarsi dai sedili per avvicinarsi a quel ragazzo che s’era accasciato a terra. Una ragazza in prima fila avverte il conducente mentre un altro che stava alla mia destra prova a chiamare un’ambulanza. Quindi l’intero autobus inizia a mormorare e nella confusione che s’era creata un’altra persona che ben non ricordo chiede il silenzio dicendo che bisognava allontanarsi un poco dal ragazzo per farlo respirare nel mentre che l’autobus si fosse fermato.
Bene. Vi ho appena raccontato una bugia.
La situazione andò purtroppo ben diversa, spaventosamente diversa. Il ragazzo si accascia a terra e io sono l’unico, l’unico che si avvicina e che chiede aiuto.
Io li ho visti tutti, dal primo all’ultimo di quei ragazzi e di quelle ragazze dentro l’autobus e tutti quanti erano immobili, con una faccia indifferente e non curanti, come se non fosse successo niente o come se fossero stati paralizzati. Mi fissavano con una poker-face come per dire “embeh?”.
Chiedo aiuto al conducente ma nel mentre il ragazzo si risveglia dicendo che stava bene e rifiutando l’aiuto dell’autista che aveva proposto di fermarsi all’ospedale che era li vicino.
Se non sappiamo gestire un calo di zuccheri, se siamo indifferenti quando qualcuno si sente male, come possiamo gestire poi le cose più grandi?
Fra le tante motivazioni sociali, psicologiche e volendo anche politiche che si potrebbero ricercare in proposito, c’è una interpretazione su cui vorrei soffermarmi e che ha sapore socialista: il senso di comunità.
Volendo generalizzare e senza fare falsi miti se ci teletrasportassimo in una comunità pre-industriale noteremmo come il senso di comunità sia più forte rispetto al nostro.
Questo perché se in un villaggio di venti persone una di quelle sta male o addirittura perisce, la differenza si vede eccome e quindi la comunità si sente più in dovere di prendersi cura di se stessa perché sa che se ogni membro sta bene allora è un guadagno in termini di sopravvivenza per tutti quanti.
Oggi questo senso di comunità manca, perché chiaramente i limiti fra un “mondo sociale” ed un altro sono così sottili che quasi non si vedono più e ogni individuo si vede più come singolo che facente parte di un qualcosa.
Da qui è comprensibile non solo osservare la nascita di “bolle sociali” differenti nelle quali l’elemento di identità diventa addirittura ridicolo, come il modo di vestirsi o di parlare, ma anche osservare come nel caso si manifesti un problema nessuno se ne assume la cura o la responsabilità: l’appagamento dalla risoluzione sembra inesistente.
Pensateci bene: dal sito Worldometer potete osservare in live che la popolazione mondiale è salita a più di 8 miliardi di persone e ogni giorno nascono circa 290 mila persone e ne muoiono circa 160 mila. Se di fronte a voi vedeste una persona che si sente male o che si trova in difficoltà economica o sociale, che cosa cambia se l’aiutaste o meno? Sembrerebbe nulla.
Quindi risulta più che comprensibile l’anestesia sociale in cui sembriamo vivere e il perché le persone siano poco altruiste, quasi quasi non le possiamo nemmeno biasimare.
Invece sarebbe opportuno educarsi a prendersi cura dell’altro perché ogni persona per quanto piccola possa sembrarci è come una tessera di questo grande domino che è la vita.
Molto spesso sentiamo i politici parlare di ciò che si deve fare per le famiglie e le imprese eppure quasi nessuno si impegna a costruire ciò che vi si trova in mezzo: dare alle persone una buona motivazione per vivere e condividersi con gli altri.
Altrimenti, nel peggiore dei casi, spero davvero che l’indifferenza ci uccida tutti una volta per tutte.