Di Mattia Carramusa
So bene di essere di parte. Chi mi conosce sa bene che ho sempre avuto un certo feticismo nei confronti del mondo radiofonico. Non da radioamatore, beninteso. Proprio il mondo delle emittenti radiofoniche, le trasmissioni. Uno dei primi mass media propriamente detti.
Ed è veramente piacevole ascoltare la radio. Spesso poco valorizzata. Nel mondo dell’immagine il suono è estremamente sottovalutato. Nel secolo in cui tutti guardiamo, senza osservare, pochissimi ascoltano, e pochi sentono.
Dopo la vista, l’udito è il senso che sfruttiamo di più. Anzi: i due sensi tendono a completarsi o compensarsi. Spesso chi ha una vista debole ha un buon udito e viceversa. Quasi sempre sono i rumori a richiamare la nostra attenzione visiva lontano dal nostro “obiettivo”.
Eppure in una realtà di Instagram, YouTube, Twitch, Odysee, videochat eccetera continuiamo a telefonarci, mandarci audio, ascoltare la musica più che vedere i musicarelli, ascoltare e ripetere per imparare le lingue eccetera.
Il vuoto sonoro di una camera silenziosissima ci mette più in soggezione rispetto al vuoto di una pagina bianca da riempire.
Abbiamo bisogno costante del suono di fondo. Che sia di una tastiera che batte, di una televisione in un’altra stanza accesa solo per il sottofondo, di una canzone o dell’arrotino per strada.
Il suono aumenta le nostre percezioni. Se un’immagine con colori e forme particolari ci comunica qualcosa, quella stessa immagine cambia completamente di significato sulla base dei suoni che gli mettiamo di sottofondo. La rappresentazione di casa spettrale con la sigla storica di Scooby-doo ci darà una sensazione differente alla stessa immagine con la colonna sonora dello sceneggiato tv “Streghe”, del film “L’esorcista” o di “Vieni avanti cretino”.
Il potere del suono che amplifica le immagini è lo stesso potere della “compagnia”. Mentre immagini e video canalizzano su di esse (o dovrebbe farlo) l’attenzione, il suono ci accompagna. Dopotutto, quando stiamo con gli amici o tra compagni, parliamo, ridiamo, cantiamo, discutiamo, facciamo quel sano baccano. Anche da una stanza all’altra.
Ecco che i mezzi che ci permettono di ascoltare anche senza vedere ci tengono compagnia. Quando facciamo sport da soli, di solito, lo facciamo ascoltando canzoni.
Ci facciamo compagnia ascoltando musica o trasmissioni quando facciamo le faccende domestiche da soli in casa, mentre scriviamo un articolo, un documento o un libro, mentre sorseggiamo da soli un amaro.
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La radio, oggi, è il più “rivoluzionario” dei mezzi.
Ci costringe a dar peso alle parole e non limitarci alla comunicazione non verbale (fisica, posturale, cromatica eccetera).
In una società in cui nessuno osserva e tutti guardano, essere “costretti” ad ascoltare dei concetti è assurdamente potente.
Soprattutto, costringe a valorizzare ogni singola parola e la sintassi. Il messaggio infatti deve essere chiaro e non equivocabile. La stagione dei social ci ha portato alla perdita della capacità comunicativa verbale.
Così concetti, magari apprezzabili, espressi alla “come me pare” diventano aberrazioni colossali.
Parafrasando Umberto Eco, i social hanno dato possibilità di parlare al mondo come si parla tra amici al bar dopo un bicchiere di vino.
La radio costringe, al contrario, ad argomentare, a sviluppare un pensiero non equivoco e a porlo nella maniera più accattivante possibile.
I “colori” delle voci fanno tanto. Ecco perché un passaggio da una rimessa laterale alla radio emoziona più di un gol visto in televisione.
Il suono è emozione, è compagnia. La radio è compagnia, e non solo in macchina. È uno dei mezzi sempre attuali e sempre più accessibili. E sarebbe interessante tornare ad occuparsene. Politiche dell’etere significa anche politiche per i lavoratori dell’etere. Che, in Italia, non sono affatto pochi.