Gian Paolo Pelizzaro e Rossella Pera
Premessa
Era inevitabile. Dopo decenni di indagini e scandagliate un po’ tutte le ipotesi, mancava solo la pista interna, quella familiare. E così – quarant’anni dopo – riemergono vecchi sospetti su Mario Meneguzzi, zio di Emanuela Orlandi. Era il settembre del 1983.
«Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima».
È questo il contenuto, così come reso noto nei giorni scorsi, della risposta che il monsignore colombiano José Luis Serna Alzate fornì (formalmente, attraverso la posta diplomatica) al cardinale Agostino Casaroli, dopo una richiesta di informazioni richiesta proprio dal Segretario di Stato. Alzate era il confessore e padre spirituale di Natalina Orlandi, la figlia primogenita di Ercole Orlandi, dipendente della Prefettura della Casa Pontificia, e di Maria Pezzano, casalinga. Natalina era la sorella maggiore di Emanuela, la ragazza quindicenne sparita nel nulla nel tardo pomeriggio di mercoledì 22 giugno 1983, tra piazza Sant’Apollinare e corso Rinascimento.
I fatti narrati da monsignor Alzate risalivano al 1978 e svelavano alcune dinamiche interne alla famiglia Orlandi e in particolare sulla figura di colui che per settimane era stato sotto i riflettori dei mass media nazionali e internazionali, come portavoce dei familiari della giovane vittima.
Ma chi era il padre spirituale di Natalina Orlandi?
Nato il 28 febbraio 1936 a Aranzazu, nel dipartimento di Caldas nella regione Centro Occidentale della Colombia, e morto il 28 settembre 2014 a Pereira, nel dipartimento di Risaralda, José Luis Serna Alzate – dopo il suo ritorno in Colombia alla fine del 1978 – si distinse come mediatore fra i diversi gruppi armati e il governo nazionale colombiano. Aveva studiato Filosofia al Seminario dei Padri della Consolata a Torino e Teologia alla Pontificia Università Urbaniana a Roma. Era stato ordinato sacerdote il 23 dicembre 1961. È stato primo Alto Commissario per la Pace nominato dall’allora presidente Belisario Betancur Cuartas, incaricato di dirigere i negoziati tra il governo e i vari gruppi armati della guerriglia colombiana di ispirazione marxista-leninista, in particolare l’M-19 (Movimento 19 Aprile, in riferimento alla presunta frode elettorale del 19 aprile 1970) e le FARC (Esercito del Popolo). Il 15 novembre 1978 venne nominato Vicario Apostolico di Florencia (Caquetá) e vescovo titolare di Cartenna. Il 7 dicembre dello stesso anno, Alzate fu consacrato vescovo. Il 9 dicembre 1985 il Vicariato di Florencia divenne Diocesi e José Luis Serna Alzate ne divenne il vescovo diocesano.
Un mese dopo l’elezione di Papa Giovanni Paolo II, monsignor Alzate tornò in Colombia: venne inviato in missione nel suo Paese natale con l’incarico di mediare tra il governo conservatore e le varie organizzazioni insurrezionali armate di estrema sinistra che stavano destabilizzando la Colombia. Tre mesi dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, nell’ambito di una serie di accertamenti riservati disposti dalla Segreteria di Stato – su richiesta degli stessi inquirenti italiani – sul conto dei familiari della ragazza, il cardinale Casaroli ebbe una circostanziata conferma, proprio da monsignor Alzate, nella sua veste di padre spirituale della famiglia Orlandi, circa i sospetti che in quella delicatissima fase delle indagini si stavano addensando su Mario Meneguzzi.

Era stata proprio Natalina Orlandi ad aver confidato al religioso colombiano il grave episodio di molestie di natura sessuale subite dallo zio. Una circostanza particolarmente inquietante tenuto conto che il diretto interessato, Mario Meneguzzi, era sposato con Lucia, una delle due sorelle di Ercole Orlandi. Nato a Castellammare di Stabia il 20 marzo del 1933, nel 1978 aveva 45 anni e la nipote Natalina 21. Padre di tre figli (Pietro, Giorgio e Monica), cugini di Emanuela, Meneguzzi ebbe un ruolo di primissimo piano nel primo e delicatissimo mese di indagini sulla scomparsa della quindicenne cittadina vaticana. Fin da subito, agì su mandato dei genitori della Orlandi come loro portavoce. Il 23 giugno 1983, era già operativo: fece il giro delle redazioni dei giornali e delle agenzie di stampa per sollecitare la pubblicazione di un annuncio sulla scomparsa della nipote. Cosa che ebbe subito un riscontro il giorno successivo, il 24 giugno, con la pubblicazione da parte del quotidiano “Il Tempo” del primo trafiletto dal titolo “Chi ha visto Emanuela?” e – alle ore 16:21 – del primo lancio Ansa sul caso:
«Viva apprensione ha destato in Vaticano la scomparsa di una ragazza di 15 anni, Emanuela Orlandi, figlia di un messo della Prefettura della Casa Pontificia, della quale non si hanno più notizie da due giorni».
Le informazioni fornite da Mario Meneguzzi all’Ansa (e presumiamo anche agli altri colleghi giornalisti) contenevano già la gravissima ipotesi che si potesse trattare di un sequestro di persona: «I familiari e i colleghi del padre [a chi si riferivano?], che al momento temono un rapimento, erano molto restii a rivolgersi alla stampa, ma hanno rotto ogni indugio per l’angoscioso trascorrere delle ore».
A distanza di 40 anni, è difficile (se non impossibile) scoprire come andò effettivamente la vicenda e come il cardinale Casaroli fosse venuto a conoscenza dei sospetti su Mario Meneguzzi, perché i principali protagonisti (Casaroli, Alzate, Meneguzzi e Ercole Orlandi) sono tutti passati a miglior vita. Natalina Orlandi, la diretta interessata, oggi donna, madre e moglie matura, all’epoca dei fatti (nel 1978) aveva 21 anni: «Ero un’adulta, ero grande forse un po’ ingenua, un po’ stupida, ma ero grande». Parole, queste, che oggi possono suonare un po’ stridenti. Ma i tempi erano altri e i vent’anni di ieri non sono i vent’anni di oggi.
Alla conferenza stampa presso l’Associazione della Stampa Estera in via dell’Umiltà a Roma, convocata dagli Orlandi e dall’avvocata Laura Sgrò per il giorno successivo alla diffusione del servizio del Tg La 7, diretto da Enrico Mentana, Natalina Orlandi, la diretta interessata ha confermato tutto:
«Per prima cosa non esiste stupro, secondo è una cosa che risale al ‘78 e siccome lavoravamo insieme con mio zio e mio zio ha fatto delle semplici avances verbali, un piccolo regalo, ma quando ha capito che non c’era nessun tipo di possibilità, è finito tutto lì. Indubbiamente io i primi giorni sono rimasta scossa e la prima cosa, la prima persona con cui ho parlato, è stato Andrea [Mario Ferraris] che era il mio fidanzato che adesso è mio marito. Perciò lo sapevamo io e lui. Indubbiamente, di questa cosa non sarei mai andata a parlare con mio padre anche perché è stata una cosa talmente veloce che si è chiusa in poco tempo. L’unica persona con cui mi sono confidata è stato il nostro sacerdote, padre spirituale ed è finita lì. È finito lì. Questo è stato il grande rapporto che c’è stato con mio zio. Sbagliato o giusto che sia, però è finito lì. Non c’è stato assolutamente altro».
La signora Natalina ha più volte ripetuto che lo scoop del Tg de La7 sarebbe una «non notizia» perché il fatto era sconosciuto al grande pubblico, ma era noto agli inquirenti fin dal 1983. La vicenda delle «attenzioni morbose» da parte dello zio era stata confermata a verbale sia da lei che dall’allora suo fidanzato Andrea Mario Ferraris davanti al magistrato titolare delle indagini sulla scomparsa della sorella, il sostituto procuratore Domenico Sica:
«Era una cosa che non si sapeva? Lo sapevano tutti in Procura: lo sapeva il dottor Sica, lo sapeva l’avvocato Egidio, che all’epoca era il nostro avvocato, e abbiamo concordato di non dire nulla a papà, perché non ci sembrava di dargli dolore più dolore, per una cosa vecchia che era finita. Non c’ho niente da nascondere, siamo stati sempre delle persone limpide, non ho assolutamente nulla da nascondere».
Resta incomprensibile il perché Natalina, in cinque anni, non abbia mai inteso informare i genitori degli strani comportamenti dello zio. Sia lei, sia il fratello Pietro e sia la loro legale, Laura Sgrò, nel confermare quanto monsignor Alzate scrisse al cardinale Casaroli, hanno ribadito che l’interesse della famiglia è sempre stato rivolto ad ottenere la documentazione in possesso del Vaticano:
«Nel 2017 vengo contattata da Becciu che era responsabile della Segreteria, il sostituto responsabile… [si riferisce al cardinale Giovanni Angelo Becciu, già sostituto per gli Affari Generali della Segretaria di Stato vaticana, ex prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, citato in giudizio il 3 luglio 2021 dal Tribunale di Prima Istanza del Vaticano per lo scandalo relativo all’acquisto di un immobile di lusso a Londra] Ero convinta che ci fossero notizie e che ci volessero dare i documenti visto, che Pietro era visto come qualcuno di indesiderabile in Vaticano […] Vado su con mio marito […] chiedo di riceverci a tutti e due e lui mi dice di no, suo marito deve restare fuori. Io entro nella stanza di Becciu e lui dopo un giro di parole dove dice di essere stato molto vicino alla famiglia […] Mi fa: suo fratello insiste tanto per avere la documentazione però lei lo sa, noi abbiamo una documentazione che la riguarda. Io sono caduta dalle nuvole e dico: che documentazione? Era qualcosa che riguardava questa vicenda del ’78, di cui loro pure avevano delle carte, perciò mi ha detto: se diamo quella documentazione noi dobbiamo divulgare anche questa storia. Io l’ho vista come una forma di ricatto e mi ha fatto arrabbiare ancora di più. Gli ho detto “non ho problemi” perché per quanto mi riguarda la storia era finita. Non c’ho niente da nascondere siamo stati sempre delle persone limpide non ho assolutamente nulla da nascondere. […] Non è che loro non dovevano divulgare gli atti, noi avevamo chiesto gli atti che c’erano in Vaticano e loro continuavano a dire che non c’erano. Poi mi hanno chiamato per dirmi questa cosa, che se davano gli atti dovevano anche divulgare questo».
E così è stato.
La relazione del prelato colombiano pervenuta alla Segreteria di Stato faceva riferimento anche a un possibile ricatto: lo zio avrebbe intimato alla nipote di mantenere il silenzio su quella vicenda, pena la perdita di quell’impiego alla Camera dei Deputati che, sempre stando alla lettera di monsignor Alzate, avrebbe ottenuto proprio grazie a lui, alludendo, in questo modo, a una possibile e imbarazzante raccomandazione di Meneguzzi a sua nipote per il superamento dell’ostacolo rappresentato dal concorso:
«In quell’articolo c’è scritto anche che io sarei stata spaventata dal fatto che lui poteva farmi licenziare… Ma io ho fatto un concorso pubblico, licenziare da che? Mio zio aveva lo stesso mio livello solamente era più anziano, perciò è una follia, è un’altra follia».
Va detto che anche il cugino di Natalina, Pietro Meneguzzi, figlio di Mario, venne assunto all’età di 20 anni alla Camera dei Deputati come commesso. Su quel ragazzo si concentrò anche l’attenzione dell’allora SISDE che raccolse una serie di informazioni riservate poi comunicate al governo, in particolare all’allora ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, il 22 luglio 1983. Il servizio segreto civile era venuto a sapere che il giovane Pietro Meneguzzi era un militante della sinistra extra parlamentare, Autonomia Operaia, con vari precedenti penali. I documenti del SISDE dimostrano che – fin da luglio del 1983 – la famiglia Orlandi e in particolare quella dei Meneguzzi erano stati oggetto di una serie di «riservatissimi accertamenti».
L’alibi di Mario Meneguzzi venne, in parte, verificato nel corso della sua deposizione resa al giudice istruttore Ilario Martella il 31 ottobre 1985, oltre due anni dopo la scomparsa della nipote. Lo zio di Natalina dichiarò che il 22 giugno 1983 non si trovava a Roma, ma a Torano di Borgorose, a 94 km di distanza e ciò fin dal pomeriggio del giorno precedente, martedì 21 giugno, in compagnia della figlia Monica e della cognata, sorella di sua moglie Lucia (presumibilmente la zia Anna Orlandi).
Giulio Gangi, tra SISDE e famiglia Meneguzzi
In questo zibaldone di eventi, emerge un’altra figura strettamente collegata a Mario Meneguzzi e alla sua famiglia. Un personaggio che ebbe un ruolo di particolare rilevanza proprio nei primissimi giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi.
È un giovane di 23 anni ben inserito negli ambienti della politica (Partito repubblicano) e del mondo dello spettacolo. Il cinema e la televisione sono la sua grande passione. Proviene dalla periferia, tra Roma e Ostia: l’Infernetto. Una zona periferica della Capitale in cui vivrà per tutta la vita, prima con l’anziana madre e poi da solo, fino alla sua morte, avvenuta all’età di 63 anni, la mattina del 2 novembre dello scorso anno. Il suo corpo esanime è stato ritrovato da un suo caro amico nella depandance della sua abitazione. Il suo nome è Giulio Gangi.
Gangi, giovanissimo, si muove bene nel mondo dello spettacolo. Stringe amicizia con l’ex marito di Claudia Cardinale, Franco Cristaldi, importante produttore cinematografico, tra le sue produzioni più importanti si ricordano “I soliti ignoti” (1958) di Mario Monicelli e “Amarcord” (1973) di Federico Fellini, e con il noto regista RAI Antonello Falqui. Grazie a queste conoscenze, Gangi riesce ad avvicinarsi al mondo della politica alla fine degli anni ’70, grazie alla conoscenza del giornalista del Tg2 Mauro Dutto, eletto deputato nel 1979 e responsabile dell’Ufficio cultura del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini. Nello stesso anno (1979), Dutto indica Gangi come suo assistente nella Commissione parlamentare di Vigilanza RAI. Affiancherà successivamente anche il parlamentare Vittorio Olcese, eletto anch’egli nel 1979 in Lombardia sempre per il Partito Repubblicano. In alcune sue interviste, Gangi indica, fra le sue conoscenze dell’epoca, anche Claudio Baglioni (cantante preferito di Emanuela Orlandi) e il regista televisivo e sceneggiatore RAI Enzo Trapani.
Nel periodo in cui lavora alla Camera dei Deputati come assistente dell’on. Dutto, Gangi conosce Mario Meneguzzi e il suo potente e influente capo, Mario Peruzy, vice segretario generale di Montecitorio, in quel periodo direttore del settore Amministrazione e Patrimonio da cui dipendeva lo stesso Meneguzzi, con la qualifica di Capo Ufficio Servizi della Camera.
Fu proprio tramite il giro Meneguzzi-Peruzy che Gangi entrò casualmente in contatto con Vincenzo Parisi, all’epoca vice direttore operativo del SISDE. Dopo un periodo nella Polizia di Stato, Gangi nell’aprile del 1983 entrò con la qualifica di coadiutore nel servizio segreto civile. La sua prima mansione fu proprio quella di raccogliere informazioni nel mondo che aveva sempre frequentato: il settore cinetelevisivo. Due mesi dopo, attraverso un’irripetibile concatenazione di coincidenze, si trovò nel posto giusto al momento giusto (o a seconda della prospettiva, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato) e cioè a strettissimo contratto con la famiglia Orlandi proprio grazie alla sua conoscenza con i Meneguzzi. Per altro verso, il SISDE si trova – caso quasi unico del genere – un proprio agente infiltrato, fin dalle primissime battute, nell’ambiente familiare di una minorenne presumibilmente vittima di sequestro di persona.
Questi i fatti
L’estate precedente, parliamo del 1982, trascorre qualche giorno di vacanza in un paesino del Reatino, Torano di Borgorose, dove ha casa un suo amico, Marino Vulpiani, studente di medicina. Torano è da anni anche luogo di villeggiatura per la famiglia Orlandi: possiedono un casale dove spesso ospitano anche i parenti e cioè i Meneguzzi. Attraverso l’amico Marino, Gangi conosce Monica, la figlia di Mario Meneguzzi e Lucia Orlandi, e se ne invaghisce. Monica è una bella ragazza, ma il sogno di una relazione con lei vanisce quasi subito. Per Giulio Gangi resta la magra consolazione di una normale amicizia. E sarà proprio questa amicizia tra i due che servirà da cavallo di Troia per il futuro agente del SISDE, all’indomani della sparizione della cugina di Monica. Un fatto, questo, che segnerà in maniera indelebile tanto la sua carriera, quanto la sua stessa vita.
Appena venuto a sapere della scomparsa di Emanuela Orlandi, che conobbe a Torano, Gangi inizia a darsi un gran daffare per aiutare i familiari e risolvere il caso. Forse senza troppo riflettere, non si accorse che da quel momento stava mescolando in modo irresponsabile questioni del tutto personali (agitate dalla sua attrazione per Monica) e sensibili attività istituzionali. Una miscela esplosiva perfetta. Sta di fatto che, quella sarà per Gangi la sua prima, importante “missione” come agente del sevizio segreto civile e in questo ambito inizia una frenetica attività di raccolta di informazioni, partendo proprio dai suoi contatti con i familiari della ragazza scomparsa, che sfocerà in una serie di appunti che – spesso – andavano a sovrapporsi alle relazioni di servizio della Squadra Mobile o, peggio, in contrasto con le attività della polizia giudiziaria. Tralasciando tutta una serie, peraltro ampiamente nota, di maldestre disavventure che lo videro protagonista in chiave negativa, ciò che emerge è proprio lo stretto legame tra Gangi e il padre di Monica, Mario Meneguzzi. E si deve proprio al giovane agente del SISDE la sconsiderata e scellerata decisione di fornire a Meneguzzi informazioni riservate che, di fatto, compromisero le indagini. Lo zio di Natalina, infatti, da giorni aveva il sospetto di essere pedinato e tenuto sotto controllo. In particolare, un giorno mentre si stava recando a Santa Marinella dove aveva una seconda casa, Meneguzzi ebbe modo di annotare le targhe di alcune auto che lo avevano seguito. Tornato a Roma, fornì i numeri di queste targhe a Gangi per sapere chi fossero i proprietari di quei veicoli e così l’agente del SISDE, ottenuta risposta interrogando il CED del ministero dell’Interno, informò Meneguzzi che quelle targhe erano abbinate a macchine in uso alla Polizia. Meneguzzi mangiò la foglia, avendo avuto conferma dallo spasimante di sua figlia che era tenuto sotto controllo dagli inquirenti. Da parte sua, l’irresponsabile iniziativa di Gangi poteva configurare il reato di favoreggiamento.
«In particolare, il Gangi mi disse di aver letto casualmente in u fax o su una telescrivente il nome di Emanuela Orlandi e della sua scomparsa e, avendo ricordato di chi si trattasse, aveva deciso di attivarsi. Preciso che il Gangi aveva conosciuto Emanuela a Torano – spiegò Ercole Orlandi, nella sua deposizione davanti al magistrato dell’8 luglio 1993 – e che tra l’altro le aveva promesso di presentarle Claudio Baglioni, di cui Emanuela era un’accanita fan». Le parole del padre della scomparsa sigillano l’intera questione.
Gangi ebbe anche altre disavventure, tutte legate alla sua maldestra attività informativa svolta all’interno di casa Orlandi. Dopo il primo appello di Papa Wojtyla di domenica 3 luglio 1983, la sparizione di Emanuela si trasformò in un complotto internazionale, al di fuori della portata di un ragazzo di poca esperienza, inadeguato e sprovveduto come Gangi. In pochi mesi, da una posizione di indubbio vantaggio, Giulio Gangi cadde in disgrazia fino ad essere definitivamente estromesso dal caso Orlandi. Per i suoi superiori nell’intelligence civile, la misura era ormai colma.
E tutto questo sempre a causa del modo di procedere imbranato e incauto di Gangi. Fra gli errori che gli vennero imputati, questa volta dallo stesso magistrato che conduceva le indagini sul presunto sequestro di Emanuela, c’era l’aver dato ai genitori della Orlandi delle insensate e infondate certezze circa una rapida risoluzione del caso. Certezze che nessuno avrebbe mai potuto o dovuto dare ai familiari. Una millanteria che gli costò cara. L’accusa gli venne mossa dalla stessa madre di Emanuela, Maria Pezzano. Di fronte a due versioni contrastanti, il giudice istruttore procedette al confronto tra Gangi e la signora Orlandi. L’agente del SISDE cercò, tra una giustificazione e l’altra, di mettere una toppa alla vicenda, cercando di negare l’evidenza. La madre di Emanuela restò ferma sulla sua versione di fatti.
Dal quel confronto, Gangi ne uscì con le ossa rotte. La sua reputazione fu definitivamente compromessa, così come gli appunti da lui scritti in quelle settimane di foga investigativa.
Nel suo verbale di sommarie informazioni del 19 luglio 1993, Gangi spiegò anche la natura dei profondi contrasti con i suoi superiori al SISDE. Il quadro che emerse fu disarmante e getta un alone di opacità su tutta l’attività da lui svolta in quelle settimane, a stretto contatto i Meneguzzi e gli Orlandi: «Non ho mai pensato che la scomparsa potesse essere ricondotta a una scappatella o a un fatto privato, ritenendo che dietro vi fosse qualcosa di più serio e più concreto, probabilmente riconducibile a un giro organizzato di prostituzione internazionale».
Dopo aver rischiato l’incriminazione per aver svelato a Mario Meneguzzi i veri intestatari delle targhe dei veicoli di copertura utilizzati dalla Polizia per pedinare lo zio di Natalina, bruciando così l’intera operazione degli investigatori, Gangi cercò di fornire al giudice istruttore una spiegazione credibile e meno grave, dal suo punto di vista, circa il suo allontanamento dal SISDE: «Confermo le mie precedenti dichiarazioni e preciso a seguito della dichiarazione spontanea da me resa […] a me attribuite nella proposta di allontanamento e correlative alla vicenda Orlandi siano soltanto un pretesto per determinare comunque il mio trasferimento ad altro ufficio […] in ogni caso prendo atto dell’esigenza che mi rappresenta la S.V. di chiarire cosa debba intendersi per condotte non opportune»
Nel giro di Mario Peruzy
Natalina Orlandi e lo zio Mario Meneguzzi non condividono solo il legame di parentela, ma anche il luogo di lavoro; la Camera dei Deputati. Come abbiamo accennato, a Montecitorio ha trovato lavoro anche Pietro Meneguzzi, il primogenito di Mario. L’informazione è contenuta in un appunto riservato del SISDE, firmato dal vice direttore Vincenzo Parisi, indirizzato alla Presidenza del Consiglio (Segretario generale del CESIS) e al ministro dell’Interno. In questo documento, il governo viene informato sull’attività informativa del Servizio nei confronti della famiglia Orlandi e di Meneguzzi in particolare. L’appunto indica anche l’area politica di appartenenza del cugino di Natalina Orlandi, Autonomia Operaia, e i precedenti penali che risultavano sul suo conto. E qui sorge un altro interrogativo: gli uffici della Camera, interessati all’istruzione della pratica per l’assunzione di Pietro Meneguzzi, furono informati dai diretti interessati (dal padre o dal figlio) che il candidato aveva tutti quei precedenti penali e militava in una organizzazione di estrema sinistra extra parlamentare?

La data di questo appunto del SISDE firmato da Parisi – 22 luglio 1983 – riveste una certa rilevanza perché è il giorno del cosiddetto cambio della guardia nel caso Orlandi. Il 22 luglio di quell’anno, infatti, Mario Meneguzzi, nel corso di una movimentata conferenza stampa, comunicava la sua uscita di scena, con la nomina come legale della famiglia Orlandi dell’avvocato internazionalista Gennaro Egidio. Ciò avveniva a 48 ore dallo scadere dell’ultimatum fissato dai presunti rapitori della quindicenne cittadina vaticana e in concomitanza con un altro, importante avvicendamento, avvenuto 48 ore dopo: il sostituto procuratore della Repubblica Margherita Gerunda lasciava il posto, come titolare del procedimento penale sulla sparizione di Emanuela Orlandi, al collega Domenico Sica. L’istruttoria proseguiva ancora con rito sommario.
Ma torniamo a Giulio Gangi. Fu proprio grazie alla frequentazione con Mario Meneguzzi che l’intraprendente Gangi entrò in contatto con il potente capo del padre di Monica, Mario Peruzy, e tramite costui venne presentato a Vincenzo Parisi, all’epoca in cerca di brillanti giovani di buona volontà da poter cooptare per integrare i rachitici ranghi del SISDE, entrato in funzione solo cinque anni prima, con la legge di riforma del comparto dell’intelligence 24 ottobre 1977 n° 801, entrata in vigore il 1° gennaio del 1978.
Ma chi era Mario Peruzy?

Figura sfuggente e poco nota, il suo nome spunta nei documenti d’archivio di Camera, Senato e Quirinale in molteplici occasioni, rivestendo ruoli apicali sempre differenti. Il nome di Peruzy appare già nel 1971, sulla “Gazzetta Ufficiale”, anno 112° – n° 23, e viene indicato come consigliere della Camera de Deputati e direttore amministrativo della Biblioteca.
Quella di Mario Peruzy è indubbiamente una carriera di grande prestigio: dal 1° aprile 1974 dirige i rapporti con i costituendi Consigli regionali. Dal 1° giugno 1974 al 17 giugno 1977, è alla direzione dei Rapporti con i Consigli e le Giunte regionali. Dal 1° luglio 1977 al 9 giugno 1981 si occupa di Amministrazione e Provveditorato. Dal 10 giugno 1981 al 31 dicembre 1984 (quindi nel periodo in cui sparì Emanuela Orlandi) è direttore dell’Amministrazione e del Patrimonio della Camera dei Deputati. Infine, dal 1° gennaio 1985 al 31 dicembre dello stesso anno riveste la carica di vice segretario generale della Camera.

Abbiamo chiesto a molti ex parlamentari dell’epoca se ricordassero quest’uomo e, ognuno di loro, ha risposto negativamente. È tuttavia emerso che Mario Peruzy intratteneva rapporti politici prevalentemente con il Partito Repubblicano e la Democrazia Cristiana. Nel 1986 è premiato con la nomina a Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica italiana. Lasciato l’incarico di vice segretario generale nel 1986, per sopraggiunti limiti di età, nei primi anni ’90 rimarrà comunque presente sia a Montecitorio, dove partecipa a commissioni parlamentari, sia al Quirinale, essendo tra le figure che godevano della massima fiducia dell’allora presidente della Repubblica, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, come dimostrano le frequenti sue audizioni e convocazioni al Quirinale così come emergono dal sito della Presidenza della Repubblica. L’on. Scalfaro, lo ricordiamo, aveva gli uffici della sua segreteria particolare al quarto piano del palazzo di Sant’Apollinare, dove aveva sede la scuola di musica sacra Tommaso Ludovico Da Victoria da dove (o in cui) spari Emanuela Orlandi. Questa scoperta risale al 1° dicembre 1995, con la pubblicazione dell’inchiesta dal titolo “Oscar pensaci tu” apparsa sulle pagine del settimanale “ITALIA” e firmata da uno dei due autori di questo articolo.
Mario Meneguzzi e il primo rapporto di PG al magistrato
Lo zio di Natalina Orlandi ha – dal primo giorno dopo la scomparsa della nipote Emanuela – ha avuto un ruolo cruciale nelle indagini. Su mandato dei genitori della quindicenne, infatti, Mario Meneguzzi ha agito come portavoce della famiglia Orlandi e come unico mediatore nei confronti dei presunti rapitori della minore dal 23 giugno al 22 luglio del 1983. L’attività svolta da Meneguzzi, in questo ambito, ha determinato una serie di riflessi particolarmente gravi sulle indagini. Come abbiamo detto, l’avvocato Egidio entrerà in scena solo a partire dal 22-23 luglio. Fino a quella data, l’intermediario degli Orlandi è Meneguzzi.
È Meneguzzi che risponde al telefono di casa Orlandi in Vaticano, a partire dal 24 giugno 1983, spacciandosi per il padre della quindicenne scomparsa. Va ricordato che già sui primi due articoli brevi dedicati alla sparizione di Emanuela Orlandi (quello del 24 giugno su “Il Tempo” e quello del giorno successivo su “Il Messaggero”) compariva il numero di telefono di casa degli Orlandi presso il quale chiamare per fornire eventuali informazioni sulla ragazza.
Con la successiva decisione di far stampare almeno tremila di manifesti con il volto di Emanuela Orlandi e il numero di telefono della sua abitazione in Vaticano, il caso venne divulgato e pubblicizzato in modo del tutto indiscriminato, senza aver mai concordato questa iniziativa con gli inquirenti. I manifesti vennero affissi da parenti e amici della famiglia Orlandi la notte tra il 29 e il 30 giugno 1983. Il 1° luglio, le strade di Roma erano tappezzata con il volto della «ragazza con la fascetta». Allarmato fin dalla nottata tra il 22 e il 23 giugno da Ercole Orlandi (tenuto all’oscuro dell’inquietante vicenda che aveva visto coinvolta la figlia Natalina cinque anni prima), Mario Meneguzzi si trasferisce armi e bagagli a casa del cognato per svolgere il suo incarico di portavoce e mediatore.
È Meneguzzi che risponde a tutte le telefonate che giungono a casa Orlandi, a partire dal 24 giugno 1983, dopo la pubblicazione dei trafiletti sui giornali e l’affissione dei manifesti. In un appunto del 7 luglio 1983, firmato dal vice direttore Parisi e indirizzato al Gabinetto-Segreteria Speciale del ministro dell’Interno, il SISDE scriveva: «Per quanto concerne i manifesti recentemente affissi sui muri di Roma, si è appreso che essi sono stati stampati di iniziativa della famiglia Orlandi presso la tipografia “La Piramide” di proprietà dello zio della ragazza». In particolare, è proprio Meneguzzi che risponde alle telefonate del sedicente Pierluigi (uno degli anonimi interlocutori che sembravano essere a conoscenza di alcuni particolari su Emanuela e della sua sorte) di sabato 25 e domenica 26 giugno (mai registrate, per cui il loro contenuto è basato solo sui resoconti verbali forniti dallo zio di Natalina) e quella della sera di martedì 28 giugno 1983 del sedicente Mario, che venne registrata in modo artigianale da Meneguzzi.
Queste sono solo alcune delle telefonate pervenute a casa Orlandi nel lasso di tempo che va dal 24 giugno al 5 luglio 1983, giorno in cui apparve sulla scena una nuova, ignota entità che parlava con la voce di un falso anglofono (per questo ribattezzato da Meneguzzi, l’Amerikano). Il sedicente portavoce dei presunti rapitori della ragazza telefonò alle 12:50 prima alla Sala Stampa della Santa Sede e poi alle ore 14 a casa Orlandi. In queste due telefonate, i “rapitori” rivendicavano il sequestro della minorenne e chiedevano lo scambio con Mehmet Ali Ağca, il terrorista turco che aveva sparato a Papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio di due anni prima, detenuto («fine pena mai» perché condannato all’ergastolo) nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno. Come accaduto nei giorni precedenti, quando chiamò l’anonimo Amerikano a rispondere al telefono degli Orlandi era stato sempre Meneguzzi. Il padre della ragazza, da quello che risulta, era assente e fece rientro a casa solo il giorno seguente. L’Amerikano, qualificandosi come emissario del gruppo che aveva rapito la minorenne, aveva fatto riferimento «ai nostri elementi aventi nome Pierluigi e Mario». Alla data del 5 luglio 1983, i nomi dei due telefonisti non erano ancora apparsi sulla stampa. Questa era la prova che dietro la gestione mediatica del presunto sequestro c’era una sapiente regia criminale.

Nel primo rapporto di polizia giudiziaria, predisposto dal dirigente della Squadra Mobile della Questura di Roma, Luigi De Sena, e destinato al magistrato titolare del procedimento penale sulla sparizione di Emanuela Orlandi, Margherita Gerunda, non c’è una sola riga sui contatti intrattenuti dagli Orlandi, per il tramite di Mario Meneguzzi, con i vari Pierluigi e Mario, nel corso delle varie telefonate ricevute tra il 25 e il 28 giugno. Un vulnus gravissimo, che dà la vera cifra dello sfascio dell’inchiesta. Il 6 luglio 1983 erano già trascorse due settimane dalla sparizione della ragazza e la Squadra Mobile e in particolare la Sezione Omicidi diretta dal commissario Nicola Cavaliere erano stati tenuti all’oscuro delle trattative riservate portate avanti da Meneguzzi in tutti quei giorni, a partire dalla pubblicazione dei primi annunci fatti pubblicare da Meneguzzi sui quotidiani.
E che l’attività in casa Orlandi – proprio nei giorni caldi tra il 24 e il 5 luglio 1983 – fosse frenetica, avuto riguardo alle telefonate che ricevevano in seguito alla pubblicazione del numero della loro abitazione (soprattutto quello stampato sui manifesti), è comprovato da queste dichiarazioni di Ercole Orlandi, nel già citato verbale di sommarie informazioni dell’8 luglio del 1993, davanti al giudice istruttore Adele Rando: «Nel periodo durante il quale ricevevo presso la mia abitazione le telefonate ottenni, grazie a una attiva collaborazione del Vaticano, l’installazione di un doppio telefono recante la stessa utenza che consentiva di smaltire più rapidamente le telefonate che pervenivano. L’utenza era sotto controllo e le telefonate registrate e, comunque, indirettamente mi risulta che il centralino vaticano intercettava le telefonate e le registrava. Tale situazione è proseguita fino a quando l’avvocato Egidio non ha assunto l’incarico di rappresentarci all’esterno, per cui da quel momento tutte le telefonate furono dirottate verso il suo studio».
La tempesta provocata dalle telefonate del cosiddetto Amerikano del 5 luglio venne aggravata il giorno successivo, mercoledì 6 luglio (giorno d’Udienza Generale a San Pietro), da un’ulteriore telefonata dei sedicenti rapitori, questa volta all’agenzia Ansa alle ore 16:30: «Noi abbiamo Emanuela Orlandi, la studentessa di musica. La libereremo soltanto quando sarà scarcerato Mehmet Ali Ağca, l’attentatore del Papa». La circostanza viene riportata nel citato rapporto della Squadra Mobile mei seguenti termini: «Alle ore 16 odierne, è pervenuta all’agenzia Ansa di Roma, via della Dataria, una telefonata anonima con cui un uomo, con timbro di voce giovanile ed incerto, ha comunicato al cronista di turno, De Persis Maurizio, he la giovane Emanuela Orlandi era nelle “loro mani” e che sarebbe stata liberata solo se fosse stato scarcerato Mehmet Ali Ağca, l’attentatore del Papa». Da questo momento, avendo tirato in ballo il nome del terrorista turco, scatta la competenza dell’antiterrorismo e cioè la DIGOS. Resta il fatto, grave, che nel rapporto non sono citate telefonate dei sedicenti Pierluigi e Mario. Questa è la prova che qualcuno ha omesso di riferire questi fatti alla polizia giudiziaria. Ulteriori notizie riguardanti i contatti con i presunti rapitori della ragazza sono riferite solo alla prima telefonata a casa Orlandi del cosiddetto Amerikano: «Alle ore 14 del 5 corrente, Mario Meneguzzi, zio della minore scomparsa, informava questo ufficio che era poco prima pervenuta al numero telefonico della famiglia Orlandi, 6984982, una chiamata da parte di un uomo dall’accento spiccatamente straniero, il quale gli aveva fatto sentire la voce della ragazza e gli aveva quindi detto che avrebbe dato ulteriori notizie attraverso funzionari dello Stato del Vaticano».
Il rapporto di De Sena, predisposto da Cavaliere, termina nel seguente modo: «Il Meneguzzi Mario, a domanda, ha riferito che il padre di Emanuela gli aveva detto che nei giorni scorsi [sic], così come era stato a lui riferito dai suoi superiori, era giunta in Vaticano una telefonata anonima che avvertiva che Emanuela Orlandi era stata sequestra». E qui si aprono alcuni interrogativi.

A quale telefonata faceva riferimento Ercole Orlandi parlando con il cognato Mario Memeguzzi? A quella del 5 luglio, alla Sala Stampa della Santa Sede, o ad altre telefonate? Perché invece di riferire «il giorno precedente» (essendo il rapporto datato 6 luglio), l’estensore ha scritto «nei giorni scorsi»? Perché queste informazioni non sono state immediatamente riferite dal diretto interessato, cioè Ercole Orlandi, agli inquirenti? E chi erano «i suoi superiori» in Vaticano? Monsignor Dino Monduzzi, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, o l’arcivescovo spagnolo Eduardo Martínez Somalo, sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, con i quali lo stesso Ercole Orlandi si era confrontato – nella giornata del 6 luglio – dopo essere stato informato da Mario Meneguzzi sulle ultime telefonate ricevute dai presunti rapitori della figlia?

Il sostituto procuratore Margherita Gerunda riceverà questo rapporto della Squadra Mobile il 7 luglio 1983. Non fu difficile per il magistrato accorgersi delle tante e gravi omissioni, tutte imputabili allo strano comportamento dei familiari della ragazza scomparsa. Primo fra tutti proprio Mario Meneguzzi, il quale faceva da diaframma tra la famiglia, i presunti rapitori e gli inquirenti. L’8 luglio del 1993 – dieci anni dopo quei fatti – lo stesso Ercole Orlandi cercò di dare una spiegazione di tutte quelle anomalie al giudice istruttore Adele Rando: «La dottoressa Gerunda, che si occupava in prima battuta del caso, ricordo che lamentò il fatto che non aveva potuto prendere visione sia della verbalizzazione di Pierluigi sia della telefonata fatta dal Mario, che riteneva entrambe importanti come punto di partenza».
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3 commenti
Buongiorno! Volevo chiedere che prove avete che i Meneguzzi furono sottoposti ad accertamenti da parte del Sisde e quali erano questi presunti reati commessi da Pietro Meneguzzi. Grazie!
E’ tutto riportato nella nota del Sisde che viene inoltrata all’Attenzione della presidenza del consiglio e, in particolar modo all’Interno nella figura di Virginio Rognoni, il 22 luglio 1983. Si trova bella prima istruttoria. I presunti reati di cui non sono tenuta diffondere erano come per molti ragazzi dell’epoca legati all’attivismo politico. Niente legato alla sfera delle molestie o del sesso.
Tutto questo, però, ci dice che la famiglia Orlandi e quella dei Meneguzzi non sono esenti da sospetti. E se consideriamo che le statistiche dicono che nella maggior parte della violenza sulle ragazze il colpevole è quasi sempre un conoscente, forse sarebbe il caso di approfondire di più le indagini sulla sfera familiare di Emanuela. E di lasciar perdere tutte le piste da guerre stellari che sono state messi in giro, finora.