Premessa
Ogni luminare del caso di Emanuela Orlandi, ha una sua pista, di cui spesso è innamorato al punto di ingaggiare veri e propri duelli, a singolar tenzone, con i colleghi che sostengono soluzioni differenti. D’altra parte, è evidente un aspetto rispetto al quale la pressoché totalità di costoro si trova concorde: i depistaggi. All’unisono hanno da tempo deliberato che coloro che hanno assunto l’organizzazione e l’attuazione dei molteplici e cervellotici dirottamenti, dovevano essere individui specchiati, con accesso ad attrezzature e strumenti di altissimo livello.
Muovendosi da questo assunto, sono giunti alla conclusione di scartare, in relazione a questo aspetto, il possibile apporto di criminali appartenenti a quella che siamo soliti raggruppare sotto il nome di Banda della Magliana che, nella vicenda Orlandi sono coinvolti ora come sequestratori, ora come esecutori di una condanna capitale, ora ricattatori, ora scagionati in toto, ma mai ritenuti mente e braccio del depistaggio.
Come se i componenti del gruppo non fossero in possesso di una liquidità più che sufficiente per assicurarsi la più professionale delle attrezzature, come se non avessero una rete di contatti talmente estesa da poter usufruire, alla bisogna, dei migliori tra i professionisti e come se, nonostante la parlata burina e le movenze coatte, per arrivare dove sono arrivati, non avessero tra le loro fila uomini d’acume e non comune intelligenza.
Agli esordi, la Banda della Magliana è riuscita a far bottino grazie ad un fortunatissimo, per loro, sequestro di persona: quello del Conte Massimiliano Grazioli Lante della Rovere avvenuto il 7 novembre del 1977, preceduto dal rapimento Giansanti, del 16 maggio 1977, a cui ne seguiranno altri.
L’utilizzo del termine Banda della Magliana, soprattutto rispetto a questi primi sequestri, ai cultori del sodalizio criminale potrà risultare erroneo, dal momento che, a partire dagli stessi ex componenti, i pochi sopravvissuti a loro stessi, il concetto di fondazione della banda vera e propria viene collocata talvolta dopo la morte di Giuseppucci, talvolta a partire dalla seconda metà degli anni ottanta. Ad ogni modo, i crimini commessi a partire dalla seconda metà degli anni ’70, vedono la compartecipazione e l’accordo di personaggi che continueranno a delinquere in maniera più o meno coordinata e associata per tutto il decennio successivo.
Andiamo dunque a indagare le tecniche utilizzate dalla Banda, per poi compararle con quelle messe in atto prima e durante il sequestro di Emanuela Orlandi.
Il sequestro Giansanti
Il sequestro Giansanti, del 16 maggio 1977, è il primo e un po’ maldestro tentativo di rapimento attuato dal noto sodalizio criminale della capitale. Come racconta Antonio Mancini nell’intervista rilasciata al giurista Giuliano Benincasa, l’idea di tentare un sequestro come all’epoca era frequente tra le mafie, una volte venuti a sapere che, con poche persone e forze, ovvero nella loro medesima situazione, il clan dei Marsigliesi era riuscito a centrare il colpo più di una volta.
Perito orefice per il Tribunale di Roma, Roberto Giansanti è un sequestro con l’effetto sorpresa, ma per i rapitori. La vittima designata non era Roberto, bensì Massimiliano, il figlioletto di tre anni, che sarebbe dovuto rincasare con la sola madre. I coniugi, per motivi che nulla hanno a che fare con il sequestro, poco prima si erano scambiati le automobili: la moglie con il figlioletto si reca a fare la spesa e Giansanti arriva al condominio e porta la macchina nel box, imponendo ai criminali una svelta rivoluzione del programma prefissato.
Il sequestro fu proposta del Giuseppucci, il primo a suggerire l’idea di emulare le grandi associazioni a delinquere di stampo mafioso, mettendo a punto una serie di rapimenti a scopo di estorsione. Questa prima impresa vide scendere in campo, oltre al Giuseppucci, Mezza Tacca, Il Francese, Due Nei, un uomo che il sequestrato indica come il siciliano, uno di cui ignora qualsiasi generalità e uno di nome Stefano. Poi i più noti Danilo Abbruciati detto il Moro, Luciano Amodio detto il Riccetto, Giorgio Paradisi detto Er Capece, Luciano Mancini detto er Principe, e il cognato Amleto Fabiani detto er Voto. Cinque di loro provenivano dal clan dei Marsigliesi, con i quali avevano già messo a punto alcuni rapimenti. A quanto racconta lo stesso Giansanti, che ricorda nel libro che scrive con Raffaella Perleonardi, Il sequestro Giansanti. 16 maggio 1977 quando a Roma la Banda della Magliana rapiva il gioielliere, David and Matthaus, 2015.
La tecnica
Intervistato da Non è Radio, trasmissione proposta nel blog di Maria Ugo Tassinari, L’Alter-Ugo, Giansanti spiega che, non appena ripresi dallo stupore dettato dall’inaspettato cambio di programma, i sequestratori lo percuotono, per poi stordirlo ripetutamente lanciandogli nel viso un narcotico in polvere che lo addormenta all’istante. Questo narcotico, a detta del medico del perito gioielliere, avrebbe potuto condurlo, data la sua temperatura di parecchi gradi sottozero, ad una polmonite o, addirittura, alla morte, eventualità che il Giansanti ipotizza per le sorti del meno fortunato Duca Massimiliano Grazioli, il cui corpo non è mai stato ritrovato.
L’uomo spiega che erano due i gruppi ad essersi occupati di lui nel corso dei due lunghi mesi di sequestro. Il primo, ha ragione di credere, fosse quello legato ai “Marsigliesi”, lo deduce dall’affiatamento che con evidenza emergeva tra i membri del sodalizio, caratteristica che nel 1977 non poteva essersi ancora sviluppato tra gli esponenti della Magliana, nonché dal fatto che furono coloro che portarono a termine il vero e proprio sequestro. Rispetto ai luoghi in cui viene effettivamente condotto durante la prigionia, Roberto Giansanti afferma:
«[…] molto probabilmente siamo scesi con la macchina nella zona che poi dà alla Magliana, cioè in via della Magliana, diciamo scendendo dal raccordo, passando sotto al raccordo e tenendo quella strada che sarebbe via della Magliana Vecchia […] hanno preso una salita, ci sono zone di salita […] era Villa Bonelli. Noi (la famigli Ndr) andavamo in un albergo che si chiamava Touring che era di proprietà di Sbarra, Danilo Sbarra.
Questo costruttore era il proprietario proprio di Villa Bonelli, ed erano diciamo i costruttori che poi hanno costruito tutta la Magliana e che poi solo in un secondo tempo si è capito che avevano riciclato diversi soldi di quei sequestri […] poi siamo entrati in un palazzo, loro mi hanno tenuto la prima notte in un box, però io stavo molto molto male perché mi avevano picchiato la testa […] parlavano in napoletano uno di loro evidentemente doveva essere napoletano.
Lì ci stanno un po’ di napoletani […] la prima notte è stata in un box, da lì stiamo passati invece in un garage, proprio un garage, dove ci stanno più macchine, però era solo da loro gestito e la cosa che ancora una volta di più mi ha confermato che non aspettavano una persona grande, che hanno creato un giaciglio con una brandina di queste che si va per i campi, poi con un sacco a pelo […] all’inizio c’è stato un gruppo. Quelli del primo gruppo erano molto affiatati. Tra di loro, c’era un siciliano, un altro che si chiamava Stefano me lo ricordo bene […] siccome mio figlio si chiama Stefano»
In comune con il caso di Emanuela Orlandi
In questa prima parte del racconto di Giansanti, che prendo come esempio e utilizzo come termine di paragone, possiamo iniziare a notare alcuni aspetti che in maniera non così dissimile, ritroviamo anche nel sequestro di Emanuela Orlandi; tra questi sicuramente la presenza di una persona dal marcato accento napoletano, che ricordiamo nel lato A della cassetta fatta ritrovare in via Della Dataria. Se prestassimo fede almeno a parte della ricostruzione proposta da Sabrina Minardi, per Emanuela si dovrebbe propendere per il sequestro con più luoghi selezionati per lo stallo. Particolarmente suggestivi sono i rumori che il sequestrato distingue nel suo ultimo alloggio:
«C’era anche una quarta persona e si davano in cambio […] arriviamo ad un posto, un appartamento totalmente nuovo […] Dove mi trovavo sentivo il treno che passava proprio sotto il palazzo, ma anche l’aeroporto, diciamo, lì è zona di Fiumicino, lì ci sono delle piste […]»
Ad aggiungersi al napoletano e ai possibili luoghi di prigionia, il palazzo nelle vicinanze di Villa Bonelli gode di particolare interesse data la prossimità con la ferrovia. Meritevole di nota è la presa di coscienza circa l’utilizzo del narcotico, somministrato con un semplice soffio sul volto e dall’effetto immediato. Questo può essere una tecnica impiegata in molti dei casi di nostro interesse, da Mirella Gregori a Josè Garramon.
I pedinatori
E’ probabile che anche questa metodologia, come le sopraindicate, sia una prassi tra i criminali dediti ai rapimenti; d’altro canto, avvicinandoci all’analisi dei veri e propri depistaggi, notiamo come il tutto diviene molto più soggettivo e personalizzato, dunque caratterizzante. Non possiamo che andare con il pensiero a Mirella ed Emanuela, apprendendo dalla relazione del Giansanti come, nelle settimane che precedono il suo sequestro, diversi individui erano stati notati nei pressi della sua abitazione e della sua attività; spesso non curanti di dare nell’occhio, esattamente come avviene con il “biondo” e il “moro” intenti a pedinare Emanuela e i suoi amici e, nuovamente, il “biondo e il moro” che il 6 maggio 1983, la sera precedente la scomparsa, si recano alla festicciola di re-inaugurazione del bar di via Volturno, facendosi allontanare bruscamente dalla signora Arzenton che li ammonisce duramente perché intenti a fotografare la figlia minore e minorenne, Mirella.
«[…] uno l’avevo visto molto molto bene, davanti al mio negozio e poi quando andavo a costruire una villa, perché sono architetto […] una cosa che mi aveva colpito è che, nonostante stesse proprio con la faccia al sole […] questo fu il motivo più importante poi del riconoscimento, perché Giuseppucci aveva un occhio cieco, e per cui lui mettendosi con la testa piegata, l’occhio buono lo teneva nella zona d’ombra e quell’altro lo poneva al sole, la testa un po’ in diagonale ed è riuscito perfettamente a vedere e comunque, quando era comparso sto tizio, sin da subito, si era fatto riconoscere come l’uomo di estrema importanza con ‘sto cappuccio bianco […]».
E ancora:
«[…] Stazionavano prima del sequestro fuori dal box dove questa macchina […] questa macchina che io mettevo dentro (il box Ndr.) e l’altra, che la lasciamo proprio davanti al bar dove sta gente si posizionava. Uno era mezzo ricetto pure lui, e l’altro tutto pelato e quando fui rilasciato incominciai a descrivere alcune di queste persone subito […] ce ne era un altro che sarà stato alto 1.60 m. […] mentre andavo a trovare un mio amico della polizia e c’era un quaderno ad anelli con delle foto. Scartabellando vidi la foto di quello che ho visto prima del sequestro, ripetutamente, e che diciamo avevo capito che era lo stesso […] questo è quello che prima del sequestro stava sempre davanti al negozio e, quando andavo a fare questi lavori alla villa, stava fuori, accanto a questo maneggio, perché lui era un patito dei cavalli, e dove abitavo c’era un maneggio un galoppatoio […]»
Come per i casi delle due ragazze scomparse nel 1983, possiamo notare con quanta disinvoltura e palese noncuranza, questi signori della mala si impegnassero in pedinamenti e appostamenti. Resta da capire se tale avventatezza nascesse da una sostanziale garanzia di intoccabilità o da incauta superficialità. Probabilmente la seconda, giustificata dal dato di fatto della prima. Deposizioni di questo tipo si trovano numerose sia nel presente caso Giansanti, sia negli altri sequestri perpetrati dalla Banda della Magliana.
Telefonisti
I tratti che caratterizzano i telefonisti, così come vedremo per i depistaggi, non si possono facilmente derubricare a prassi, ed è questo l’aspetto che lascia presumere una concreta, quand’anche secondaria partecipazione di queste frange, nella questione Orlandi-Gregori. Istruiti dai marsigliesi, i criminali che partecipano al sequestro Giansanti ma, soprattutto, al drammatico sequestro Grazioli, si organizzano in gruppi, ognuno deputato a uno specifico compito. Tendenzialmente si indicano quattro mansioni: gli addetti al sequestro vero e proprio, i carcerieri, i telefonisti e i depistatori. Di norma il gruppo deputato al sequestro era il medesimo che si assumeva anche il compito del ritiro del riscatto e rilascio dell’ostaggio.
L’azione più rappresentativa del modus operandi dei telefonisti, è ben visibile nel sequestro Grazioli, le cui telefonate possono essere reperite con facilità sul web, dove grazie al sempre ottimo lavoro di Radio Radicale, è documentato l’intero processo (qui).
La certezza che, almeno una parte dei sequestratori di Grazioli, fosse la medesima del precedente sequestro Giansanti, è confermata dall’utilizzo della stessa macchina da scrivere, una macchina giocattolo tedesca, marca Lilliput che presentava la particolarità di una lettera danneggiata che, alla battitura, risultava obliqua.
Nel sequestro Grazioli, i telefonisti furono due e chiamavano da cabine a gettoni, alternandosi. Non chiamavano mai da soli: chi conduceva la telefonata doveva essere sempre coadiuvato da un compagno che, all’occasione, suggeriva o prendeva appunti. Le voci sono camuffate grazie all’utilizzo di una o due palline da ping pong posizionate nelle gote.
La prima telefonata alla famiglia arrivò il giorno stesso, a meno di un’ora dal sequestro. rispose la moglie ma da quel momento la questione viene gestita dal figlio Giulio, che comunica un numero differente che, assicura, non verrà mai trovato occupato.
Il telefonista si occupa della richiesta economica e di rassicurare la famiglia rispetto lo stato di salute del rapito, per il quale vengono preparate una serie di domande note solo allo stesso, che risponde ai bordi del quotidiano del giorno, con mano tremante. Sappiamo che, nuovi del mestiere, presto il gruppo della Magliana, necessità di supporto e consegna l’ostaggio a una piccola gang che apporta il suo sostegno e trasferisce Grazioli in Campania, da cui non farà mai ritorno. Il figlio di Grazioli, Giulio, dopo le prime rassicurazioni, fornite a fronte di spropositate richieste di riscatto, inizia a percepire, in un crescendo di ansie e preoccupazioni, che le prove in vita del proprio padre si fanno sempre più labili; ciononostante porta a termine la trattativa e consegna i soldi. Il padre non farà mai ritorno.
Depistaggi e Cacce al Tesoro
Decisamente insolite e stravaganti risultano le tecniche messe in atto per depistare le indagini. Se escludiamo l’utilizzo della Nazione, quotidiano fiorentino, acquistato in Toscana per confondere sia sul luogo di detenzione dell’ostaggio, sia sulla provenienza dei sequestratori, dal momento che la Toscana era sovente utilizzata come nascondiglio dall’Anonima sarda, tutte le misure messe in campo per confondere le forze dell’ordine risultano fortemente atipiche, senza precedenti, nel nostro paese. I messaggi depistanti sono affini ad un gioco e, in aperta sfida con i familiari dell’ostaggio e la forza pubblica, richiamano maggiormente l’atteggiamento del serial killer che non del cinico rapitore.
L’Italia è un paese che di sequestri ne sa qualcosa. La maggioranza sono opera delle mafie, seguite dai gruppi eversivi della politica di estrema destra, ma soprattutto di estrema sinistra, il cui simbolo sono indubbiamente il Caso di Aldo Moro e le Brigate Rosse. Se i rapimenti a scopi politici, essendo destinati al sovvertimento del regime nazionale, necessitano di pubblica risonanza e pertanto periodicamente emetto proclami. Al contrario, ratto a scopo estorsivo, ampiamente praticato dalle associazioni a delinquere di stampo mafioso, mira per quanto possibile all’anonimato e ad agire nell’ombra.
Questo è il principale motivo per cui le telefonate ai giornali e le conseguenti cacce al tesoro necessarie al fine da recuperare pizzini con nuove informazioni ed indicazioni, rendono i sequestri alquanto eccentrici.
Corse, bar e cestini
«Correte in quella cabina telefonica», «C’è un’informazione importante nel cestino dell’immondizia vicino a Castel Sant’Angelo», «Andate in quel bar».
Quando finalmente le parti raggiungono l’accordo, la richiesta di quelli della Magliana, è di confermare mediante una pubblicazione su quotidiano, il Tempo, la somma pattuita e di farlo con la seguente dicitura:
«Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo fisso, Lit. 1500»
Vi ricordano qualcosa? L’eccentricità di questi depistaggi ben si sovrappone alle indicazioni e alle richieste avanzate dai telefonisti nei casi di Mirella Gregori e Emanuela Orlandi. La consegna del borsone pieno di denaro avviene seguendo passo passo step progressivi, simili ad una estenuante caccia al tesoro.
Se andiamo sommando e comparando i vari elementi che vanno a comporre i sequestri della Banda della Magliana, non possiamo negare una tutt’altro che scontata similitudine che parte dal metodo di adescamento e termina con quiz e sequenze numeriche da decriptare.
Sciogliamo i nodi e seguiamo le molliche di pane … il sentiero dorato
Dall’analisi e dalla comparazione di questi sequestri, ad esclusione di Mirella Gregori che, temo, sia stata strumentalizzata e forzatamente inserita nel caso Orlandi con l’obiettivo ci alzare la posta, incrementare il depistaggio e, per chi non lascia ma vede la possibilità di raddoppiare, muovere pressioni anche negli organismi di Stato.
Al centro di ogni questione che interessa i vertici di stato, i servizi segreti, l’esercito, le ambasciate, gli organi di Stato. Quando la corruzione abbraccia anche le forze dell’ordine e la magistratura, l’origine non può che risiedere nei due elementi che dalla notte dei tempi, governano ogni tipo di società. Non si tratta di aria e acqua, a cui l’essere umano sarebbe in grado di rinunciare in nome di soldi e potere.
Senza addentrarci e dettagliare in maniera eccessiva gli elementi che vengono ora indicati, per la maggioranza dei quali è andrebbero dedicate diverse pagine, vediamo i punti salienti dell’affare Orlandi che, non posso fare a meno di ripetermi, non può prescindere dal suo inserimento nel contesto storico, svincolandosi dal pregiudizio che porta a calibrare ogni evento sul “qui” e sull’”adesso”, quando non direttamente sulla nostra persona e il nostro modo di ragionare.
- Le evidenze = Quando si affronta una questione che, dal personale muove al generale, è necessario fermarsi e individuare quelle componenti che possono essere definite “fatti”, cioè che esistono, insistono, e non si relegano all’ambito dell’ipotetico. E’ questo l’abusato rasoio di Occam: non la soluzione più frequente o più banale, bensì la più probabile alla luce degli elementi e del contesto, all’interno del quale si va a verificare un determinato evento. Nel caso di Emanuela Orlandi, gli unici fatti che possediamo sono:
- Il crack dell’Ambrosiano con gli eventi che ne sono conseguiti, e che vedono direttamente coinvolta la Santa Sede e lo Ior.
- Enrico de Pedis a Sant’Apollinare, ossia la presenza di un noto esponente della criminalità romana, detentore di un potere a tal punto ampio, da esercitare influenze e pressioni fino ai livelli più alti dello stato Italiano e di quello Vaticano.
- La presenza delle tre principali mafie, tutte in un momento di forti contrasti interni.
- Forti devianze di natura sessuale trasversali al mondo laico ed ecclesiastico, che interessano in modo tutt’altro che relativo la sfera dei minori.
- Le sacche di potere economico = Nella Roma degli anni ’80 il potere economico è prevalentemente legato all’edilizia e il settore dell’edilizia e del movimento terra sono zona di conquista per faccendieri ed imprenditori senza scrupoli; tuttavia egemoniche in questi settori sono le mafie che, non solo hanno imparato a pulirsi la faccia ma, dal dopoguerra in poi, danno vita a quel sodalizio, oggi più forte che mai, con la massoneria che, a sua volta, penetra ogni settore della vita democratica e, nella stragrande maggioranza dei casi, con uno spirito ben lontano da quello delle origini.
- Soldi Sporchi= Proventi di notevole consistenza provengono dalle attività illecite gestite dalle associazioni mafiose, dove svettano i sequestri di persona e lo spaccio di sostanze stupefacenti che distanziano di poco il mercato della prostituzione e del materiale pedopornografico.
- Soldi 2.0 = Denaro più o, ma soprattutto meno lecito proveniente da accordi e attività più, ma soprattutto meno lecite che provengono dalla sfera dei servizi segreti. In questi anni è storicamente dimostrato che il Sismi, sia pure perché costretto in una morsa che stringe il paese tra gli obblighi e la sudditanza nei confronti del Patto Atlantico in generale e degli States in particolare, la presenza del più grande partito comunista d’occidente e, delle conseguenti sostanziose immissioni di moneta di provenienza sovietica e la necessità di ristabilire un corridoio orientato a riposizione lo Stivale nelle questioni Nordafricane e del Corno d’Africa. E’ in questo scenario che trovano diritto d’asilo i potenti ex signori di Libia, molti dei quali all’epoca criminali comuni e boss mafiosi al soggiorno obbligato, inviati dal Regno d’Italia prima e dal Regime poi, ad impiantare le radici latine in Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia, con i mezzi e le capacità a loro disposizione.
Emblematica in questo senso è la questione libica che nel ’70 vede la definitiva cacciata degli italiani, molti di questi arricchiti oltre misura dalla costruzione del paese e dal traffico marittimo. I nuovi scenari che scaturiscono dalla neonata dittatura di Gheddafi che ben si inserisce nel movimento panafricano, permettono lo sviluppo di rapporti sotterranei e di dubbia legalità, dove le mafie dei rispettivi paesi promuovono lo scambio di armi, petrolio e rifiuti incuranti del potenziale distruttivo di questo genere di sodalizi i cui proventi vanno ad alimentare i punti 3 e 4.
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- Soldi da Lavare = piccole e diffuse attività dalla vita breve, necessarie per ripulire i proventi delle attività criminali. Spesso queste attività, aperte in gran numero presentano sovente la forma di società o di cooperativa.
- Soldi velenosi = Le grandi cooperative edilizie, l’Eden dei palazzinari, tutti tra loro collegati e a loro volta connessi e supportati da politici, massoni e, quando non lo sono già, mafiosi. E’ questo l’ambiente in cui, all’Eur, al quartiere Africano, in via Livorno e in tutte quelle zone che si sono caratterizzate quali basi dell’Eversione Nera, a cui tutti i membri della Banda della Magliana, ad esclusione di Antonio Mancini, fanno riferimento, che compiono il salto di qualità alcuni dei suoi esponenti, a partire da Enrico de Pedis, come dimostra il suo ingresso in cooperative edilizie da Viale Beethoven al centro città; lo stesso appartamento in cui visse gli ultimi anni con la moglie Carla di Giovanni, risultava allora e risulta tutt’oggi proprietà della cooperativa appaltatrice di diverse opere comunali, Vittoria Edilizia. A fare il pari con la Vittoria ci sono L’Oasi e la Nuova Oasi di Aldo Accetti, la Valtur (sopracitata in relazione al sequestro Giansanti) del Principe Giovanni Alliata di Montereale, la Delta degli Scimone etc.
Conclusioni
In base a quanto riportato qui sopra, sono prevalentemente due le ipotesi che potrei avanzare sul destino di Emanuela, ma mi riservo di dedicarvi un apposito articolo che, come sempre, non emana sentenze, ma propone suggestioni. Rispetto ai paragrafi iniziali, qualcuno potrebbe polemizzare e farmi notare che ho affermato di ritenere Marco Accetti uno dei telefonisti.
Esattamente, sicuramente sbaglierò ma ne sono
tutt’oggi convinta. Ma c’è un però. Un però che potrebbe sbrigliare la controversia di una persona non coinvolta, o coinvolta parzialmente, che è inspiegabilmente a conoscenza di informazioni che, come scrisse la Maisto, e confermò Capaldo, non possono relegare l’Accetti a mero mitomane che ha studiato le carte.
Dovremmo dunque chiederci se, fino ad oggi, mentre ci indicavano a luna, stessimo guardando il dito… vale la pena di dedicarci qualche riflessione, sarebbe opportuno, al netto dei sentimenti che questo individuo può suscitare, capire se, spogliato di tutte le fiabe che va inventando, e scavando dove c’è da scavare, non si possa fare un effettivo passo in avanti. Non so se, quando Abbatino riferisce a Pietro Orlandi di non conoscere Accetti, lo dica per convenienza o perchè, effettivamente, non essendo nel gruppo dei testaccini, non vi è mai entrato in contatto.
Lo stesso non si può dire di Enrico De Pedis e Giuseppe Scimone. Con il secondo condivide un generazionale sodalizio familiare, che ha le sue origini in Libia, e che i genitori ripropongono anche sul territorio italiano. Onorando le rispettive origini siciliane e calabresi. e assurgono non solo al ruolo di rinomati palazzinari, ma acquisiscono, soprattutto grazie al forte legame con il Principe Alliata di Montereale, un potere che, dalle banche riesce ad inserirsi senza difficoltà, nella stanza dei bottoni. De Pedis forse non conosceva in modo approfondito l’Accetti, ma lo conosceva sia per via dei rapporti lavorativi intrecciati con il padre, sia perchè attigui fisicamente: nel periodo in cui M.F.A era d’istanza in Curzio Malaparte, De Pedis viveva a meno di un chilometro, in via Elio Vittorini.
Se è indubbio che l’Accetti va a collocarsi con maggior congenialità nell’ambito della destra fascista e delle sue logge, entrando a pieno titolo in quella generazione di violentissimi figli di papa, di cui ho parlato in questi due articoli Ecco cosa hanno in comune e I Vinti. Tuttavia, al netto dei rapporti tra Accetti senior, Renatino e molti altri, a destare una certa curiosità è anche il momento della sua comparsa sulle scene. Sicuramente si tratta di un abbaglio e, con ogni probabilità sopraggiunge nel 2013 solo perchè 30 anni sono trascorsi, e con loro la possibilità di essere processato perchè, ad eccezione dell’omicidio, tutti gli altri reati sono prescritti. Ciononostante, il piccolo sospetto che, essendo in debito perchè salvato da una brutta faccenda nel passato, l‘Accetti sia dovuto obbligatoriamente intervenire per sparigliare nuovamente le carte, e mettere una pezza dopo le troppe verità riferite da Sabrina Minardi. non me lo toglie nessuno.
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8 commenti
Ma cambia spacciatore!
Ma Sbarbato, se la porti te è meglio… pare più bona. 😉
I professionisti del depistaggio! Ma chi, una banda di straccioni? Nemmeno fossero la mafia russa! Ma che ti fumi?
Barby ripigliati se continui ti denuncio non so se hai capito, ti faccio rintracciare
I professionisti del depistaggio! Ahahahahahahahahahahahahahahahahahahahhahahahahahaha!
I professionisti del depistaggio! Quei quattro morti di fame? AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAAH
E’ stato il Sisde che ha depistato le indagini, non quei pezzenti che non avrebbero saputo nemmeno dove iniziare. Cambia mestiere!!!!
Quello che ho sempre pensato è Bonarelli, ma ho anche pensato alla tratta delle bianche, potrebbe esserne coinvolto. Naturalmente il condizionale è d’obbligo.