Soggiornando per alcune settimane in una Lombardia fremente in vista delle prossime Elezioni regionali, ho provato l’esperienza unica del viaggio nel tempo, ritrovandomi di colpo nella seconda metà degli anni novanta del Secolo breve. Sarà stata la chiacchierata rottura tra la corrente salviniana e la corrente bosina, sarà stato il nuovo impulso verso una soluzione federalista, ma nei bar e tra le vie dell’operoso Triangolo lariano, come l’Araba fenice, il mito della Padania rinasce dalle proprie ceneri. Ceneri di un rogo appiccato dal novello Nerone: Salvini che, facendo strame dell’antico sogno dei popoli del Po, si ritrova oggi a fronteggiare un ammutinamento interno e a soccombere nell’impatto con i guerrieri di Alberto da Giussano. Qui nessuno è più disposto ad accettare il tradimento del Carroccio: la Lega torna Nord e la Padania nuovamente il fine.
Il principio di autodeterminazione dei popoli è la base della rivendicazione secessionista. Mi sento dunque in dovere di spiegare ai giovani abitanti di questo ampio territorio nordico, probabilmente non ancora nati negli anni del meraviglioso celodurismo, che diavolo è la Padania e i problemini che potrebbe riscontrare nell’appellarsi a suddetto principio.
DETERMINAZIONE PADANA
Nella “Dichiarazione di Indipendenza” del 15 settembre 1996 resa dai popoli della “Padania convenuti sul grande Po” si legge che “noi apparteniamo ad un’area storica, la Padania, che sotto il profilo socio-economico è fortemente integrata al suo interno pur nella riconosciuta e rispettata diversità dei popoli che la compongono”.
Più tardi viene presentato a Chignolo Po un progetto costituzionale, quello di una “Confederazione delle Comunità padane” composta da “Comunità storiche aderenti al presente Patto costituzionale”; esclude ulteriori precisazioni circa il loro numero, le loro denominazioni e ubicazioni. Rimane così dunque aperta la questione dell’inclusione nell’ambito geografico di quelle regioni dell’Italia centrale (Toscana, Marche e Umbria) che dal Po e dalla valle Padana sono separate dagli Appennini, e i cui elettori si sono rivelati sordi al grido dei confratelli padani. Di ciò ne presero pienamente atto tutti i leader leghisti di allora, parchi di riferimenti alle regioni dell’Italia centrale contenuti nei loro documenti politici.
La Padania è considerata dai sui stessi teorici, fervidi estimatori di Tolkien, una “Terra di Mezzo” tra il mondo tedesco e quello latino dominato da Roma.
Così ridimensionata, da un punto di vista strettamente geografico, la denominazione Padania potrebbe anche avere un senso. Ovviamente, però, per trasformare un’ ”espressione geografica” in una nazione o anche solo in una comunità di popoli, ci vogliono dei requisiti; in primo luogo una lingua che possa fungere da lingua ufficiale. Questa lingua notoriamente esiste, ma ha il difetto di essere la stessa parlata nella penisola al di sotto della linea gotica; si chiama italiano. Nella citata dichiarazione del 1996 si legge che “Lo Stato italiano ha deliberatamente tentato di sopprimere le lingue e le identità culturali dei popoli della Padania attraverso la colonizzazione del sistema di pubblica istruzione”. Ma quali sono queste lingue?
La rivista della Libera Compagnia Padana, un’associazione costituitasi nel 1995 per promuovere l’identità padana, pubblica articoli in insubre, ladino, orobico, occitano etc.. E’ evidente che quello che può fare una pubblicazione mirata ad un pubblico selezionato, non lo può fare un giornale ad alta tiratura ne, tanto meno, un partito politico. Va da se che i documenti ufficiali della Lega Nord e la sua stampa, sono sempre stati redatti in “toscano fiorentino”, per non dire italiano. Si finisce dunque per ribattezzare i dialetti “lingue ufficiali”. Diremo così che le poesie del Porta non sono in milanese, ma in una imprecisata “lingua locale”, forse l’insubre.
LA CULTURA COMUNE
Un altro requisito essenziale per la definizione di un’identità nazionale è la religione, ma anche in questo caso la Lega si scontra con la sfortunata fatalità che il cattolicesimo invada la penisola fino a Pantelleria.
Se lingua e religione non costituisco dunque un tratto distintivo dell’identità padana, non ci resta che scavare alla ricerca di glorie passate a simbolo di quel condiviso patrimonio di valori, storia e cultura. Tra queste il posto d’onore spetta al giuramento col quale a Pontida, i comuni aderenti alla Lega lombarda, si impegnarono a combattere contro il Barbarossa e, tra i simboli, esso spetta al Carroccio. Anche qui, però, sorge un problemino: la storia recita che Alberto da Giussano e i comuni lombardi non combattevano contro Roma, il cui Papa sosteneva la loro lotta, ma contro un sovrano straniero. Rimane infine un’altra criticità: trovare un’identità adeguata a fungere da supporto ad un movimento politico che si propone di superare le barriere regionali.
A questo fine possono supplire alla bene in meglio i Longobardi ma, sarà perché dopo tutto erano degli invasori, sarà perché la loro dominazione fu di breve durata o perché non avevano un pedigree illustre, questa opzione non ha trovato molto favore neanche negli stessi ambienti leghisti.
Miglior fortuna è toccata ai Celti, da cui deriverebbe il simbolo ufficiale della Padania. Esso starebbe a significare nello stesso tempo il sole, la ruota della vita, Gesù Cristo, un fiore e, infine, i “ceppi etnolinguistici padani: i celto-italici, i veneti, i tedeschi, i friulani, i ladini e gli Occitani Arpitani”. Ma per quanto azzeccato possa essere il simbolo del Sole delle Alpi, esso non ha certo la suggestione del Leone di San Marco, per la semplice ragione che la storia dei Celti non è quella di Venezia. I popoli di origine celtica, accertata o meno (Leponzi, Insubri, Orobici, Galli Boi, Galli senoni, Pannoni, Cisalpini etc) sono molti, troppi, e di ciascuno non sono chiari i rapporti con le altre etnie. Anche se si riuscisse ad accertare che la loro civiltà fosse alle origini dell’identità padana, occorrerebbe poi dimostrare che la loro identità non è andata perduta nella notte dei tempi, ma ha avuto continuità nei millenni. Va inoltre sottolineato che è verosimile che i celti che invasero il nord Italia intorno al IV sec. a.C., furono gli stessi che discesero nei Balcani. Questo testimonierebbe quindi un’identica origine tra i due popoli, origine poco gradita ai padani, lauree albanesi del Trota a parte.
Non mi dilungherò oltre sulle Cinque giornate di Milano o su Brescia Leonessa d’Italia, fiduciosa del fatto che, anche nelle scuole bosine sia stato insegnato, tra un rogo del Tricolore e una corsa con le botti, che queste città lottavano contro il nemico austriaco, per l’unità nazionale.
TRAMONTO DEL SOLE DELLE ALPI
A conclusione di quanto ho tentato di analizzare sin qui, mi sembra che si possa tranquillamente affermare che, solo un uso disinvolto della storia può consentire la costruzione di un’ipotetica identità padana e che, di conseguenza, la Padania come entità etnicamente e culturalmente omogenea, non è mai esistita.
Una volta dissolte le nebbie si scopre infatti che i dialetti non sono lingue e che ogni patria è diversa dalle altre: al regionalismo subentrano così municipalismi e campanilismi. Il meccanismo scissionistico che ne aveva favorito il successo si ritorcerebbe contro coloro che l’avevano avviato. Insomma non è sempre possibile prendere i fischi e trasformarli in fiaschi!
Dal canto nostro resteremo qui seduti, con birra e pop corn, godendoci assedi e cavalcate tra quelli che ce l’hanno duro, con i loro destrieri e le loro alabarde e quelli che hanno il ventre molle armati di ruspe e mojito. Sullo sfondo una matrona romana, che accoglie tra le sue sicure mura, l’lettorato in fuga dalle guerre.
Rossella Pera
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