di Giovanni Crema.
9 ottobre 1963, ore 22,39, inizia la “lunga notte del Vajont” con le sue immani distruzioni e la perdita di duemila vite umane compresa quella del Sindaco Socialista Giuseppe Celso, Segretario Provinciale della Federazione Socialista di Belluno, e della sua famiglia: moglie, figlio, padre e madre.
A quell’ora, dalle pendici del monte Toc una frana con un fronte di due chilometri per 260 milioni di metri cubi di terra e sassi precipita alla velocità di oltre 100 chilometri l’ora nel bacino del Vajont.
E’ un evento catastrofico perché quella massa devastante provoca l’ “onda maledetta”: decine di milioni di cubi d’acqua che dalla quota 700,42 metri dell’invaso rovina sulla valle del Piave e spazza via Longarone ed altri paesi dopo aver infierito su Erto e Casso. La diga a doppia volta alta 140 metri, “firmata” da Carlo Semenza per conto della SADE, vanto dell’ingegneria idraulica nazionale ha tenuto ma non ha evitato la tragedia. E così la valle del Piave diviene un enorme cimitero.
Una tragedia annunciata che si sarebbe potuta evitare almeno nella vastità delle proporzioni se si fossero ascoltate le tante voci critiche che si alzavano per denunciare il pericolo. Ed invece prevalse la logica perversa del profitto. E il Vajont è sinonimo di colpa. Non della natura ma dell’uomo, come stabilì un complesso processo penale preteso dai sopravvissuti del bacino ai piedi del Toc, montagna di roccia “malata”. Fu una colpa non aver interrotto i lavori di fronte a segnali inequivocabili: fu una colpa aver omesso tutta una serie di doverosi controlli e non aver garantito corrette indicazioni anche quando la situazione stava ormai precipitando.
Colpevole anche lo Stato – lo affermò a chiare lettere il compagno Senatore Luigi Ferroni, membro Psi della Commissione parlamentare d’inchiesta intervenendo al convegno pubblico “Vajont: vent’anni dopo” tenutosi a Longarone l’8 ottobre 1983 – che “si è appoggiato supinamente alle decisioni della Società Adriatica di Elettricità o per lo meno in buona parte, pur se l’ordinamento lo colloca, in astratto, nella posizione di vero dominus della vicenda, discendendo da quella che è chiaramente la concezione demiurgica dello Stato”.
E’ stato calcolato in tre minuti il tempo della tragedia. Dopo la terra e i sassi, dopo l’acqua, il vento, e poi il silenzio della morte su una Longarone rasa al suolo dove si conteranno davvero troppo pochi i superstiti. Al tempo del dolore, della rabbia, delle accuse, subentra quello del “che fare”. La volontà di chi è scampato al Vajont è unanime. Longarone va ricostruita come era e dove era. Al posto del Sindaco Celso, scomparso e che era stato a lungo uno dei denunciatori dell’incombente pericolo, c’era il Vice-sindaco Terenzio Arduini, anch’esso Socialista, che l’aveva sostituito, che dedicò tutte le sue energie alla rinascita della sua terra. E’ amaro ricordare in un momento così tragico un insensibilità burocratica. Arduini convocò nei giorni stessi del lutto e delle macerie il Consiglio comunale: erano rimasti in pochi e presero le prime decisioni. Il Prefetto dichiarò nulla la seduta per “mancanza di numero legale”. Il rispetto della legalità formale innanzi tutto!
E mentre scatta la solidarietà degli italiani e quella internazionale, si intensificano le operazioni di soccorso, le iniziative per ritornare alla vita, appunto alla ricostruzione materiale e morale di una comunità che ha pagato un prezzo assolutamente ingiustificato al progresso e al profitto, che si rimbocca le maniche, affronta con decisione e coraggio nuovi rischi e sacrifici considerandoli un atto dovuto nei confronti delle vittime che oggi riposano nel cimitero di Fortogna.
La legge per la rinascita fu emanata il 28 maggio 1964 e l’allora Ministro dei lavori pubblici il Socialista Giovanni Pieraccini ricorda che nonostante la dura contrapposizione politica del momento il Parlamento discusse a fondo la legge, la migliorò, l’affrontò con serenità. Alla fine ci furono soltanto quarantun voti contrari. Almeno dinanzi alla catastrofe prevalse la coscienza della necessità di unirsi nell’interesse del Paese. Non dovremmo dimenticare questa lezione.
Ed oggi a sessanta anni dalla tragedia, da Longarone e del Vajont nel nome delle migliaia di vittime innocenti ci si impegni per davvero che crimini del genere non si ripetano. Per far si che che prevalga l’interesse della comunità e non quello del profitto di pochi – sono ancora parole di Ferroni – “è un crimine che va contro ogni religione e contro ogni credo politico”.