Di Giuseppe Angiolillo
Si sta concludendo, solo dal punto di vista mediatico, ovviamente, la vicenda che ha visto coinvolto il detenuto anarchico Alfredo Cospito, che ha sospeso lo sciopero della fame che aveva iniziato lo scorso ottobre per protestare contro il regime detentivo a cui è sottoposto: il cosiddetto “41-bis”, anche noto come “carcere duro”.
Con il venire meno del clamore mediatico, da un lato, sarà forse possibile discutere del regime carcerario del “41-bis”, in modo più pacato e senza ricorrere a proclami del tutto inconferenti; dall’altro, tuttavia, vi è il rischio che almeno sino al prossimo “caso”, non se ne parli più del tutto, ricollocando nel dimenticatoio le centinaia di persone che vi sono sottoposte.
In questa materia, è vivissimo il conflitto tra le esigenze preventive e la tutela dei diritti individuali, perché rafforzare la custodia dei soggetti appartenenti a pericolose organizzazioni criminali, incide fortemente sui fondamentali diritti della persona, suscitando non pochi interrogativi sul limite della loro tollerabile compressione.
È allora forse il caso di capire, anzitutto, di cosa stiamo parlando.
Con l’espressione “41-bis”, si fa riferimento allo speciale regime detentivo previsto, appunto, dall’art. 41-bis, comma 2, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (norme sull’Ordinamento Penitenziario).
Istituito con il Decreto-Legge 306/1992, il “41-bis” costituiva una risposta emergenziale, alla drammatica stagione delle stragi di mafia. Tuttavia, nel 2002 è entrato stabilmente a far parte dell’ordinamento penitenziario.
Nel 2009 il regime è stato ulteriormente inasprito con disposizioni volte a contrastare le interpretazioni giurisprudenziali più garantiste, senza che vi fosse alcuna esigenza disciplinare o ragione di sicurezza interna o di ristabilimento dell’ordine, ma esclusivamente per accontentare l’opinione pubblica e sollecitare condotte collaborative.
Il provvedimento di applicazione del regime di “41-bis” è individualizzato, nel senso che, a discrezione ministeriale, colpisce singoli detenuti o internati per determinati delitti, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica od eversiva.
Il numero di detenuti che vi sono sottoposti è in costante crescita: nel 1993 erano 473, nel 2005 sono diventati 577, al 31.12.2022 erano 728.
Il regime si applica anche ai soggetti in custodia cautelare in attesa di giudizio, sebbene il numero degli internati sottoposti al regime sia di fatto molto contenuto (attualmente 5).
Il provvedimento che impone il 41-bis dura quattro anni, e può essere seguito da successive eventuali proroghe, se risulta che la capacità di mantenere contatti con l’organizzazione di appartenenza non è venuta meno.
Il provvedimento ministeriale comporta la sospensione, in tutto o in parte, delle regole del trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria.
I detenuti sottoposti a questo regime differenziato vengano ospitati in un circuito penitenziario di sezioni o istituti, preferibilmente ubicati in zone insulari, logisticamente isolati dal resto della struttura.
Nei loro confronti, è adottato un regime di elevata sicurezza interna ed esterna con lo scopo, «principalmente», di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza.
L’avverbio «principalmente» implica che le limitazioni devono avere come scopo principale, ma non esclusivo, quello di prevenire i contatti con la organizzazione criminale: ciò ha consentito la introduzione di restrizioni meramente vessatorie o comunque non giustificate da reali esigenze di sicurezza.
Si tratta di misure non definite dalla legge, ma approntate dall’amministrazione penitenziaria e confluite in una circolare del 2017, concernente l’organizzazione del circuito detentivo speciale.
Il sottoposto al regime può svolgere un solo colloquio al mese con i familiari e conviventi all’interno di locali, attrezzati con vetri a tutta altezza e microfoni, per evitare il passaggio di oggetti.
Dopo i primi sei mesi, il colloquio, ove non avvenga, può essere sostituito, da una telefonata della durata di dieci minuti.
La circolare del 2017 consente il colloquio del padre o del nonno senza vetro divisorio solo con i minori di anni 12; gli altri familiari restano al di là del vetro divisorio per tutta la durata del colloquio. Tutti i colloqui, le telefonate e la corrispondenza telefonica sono sottoposti a controllo.
Sono limitate le somme, i beni e gli oggetti ricevibili dall’esterno, al fine di evitare che il detenuto possa mantenere il “prestigio criminale”, all’interno del carcere, attraverso la ricezione di generi di lusso: il divieto si è spinto sino a vietare la somministrazione di latte caldo con la prima colazione o la dieta vegetariana.
La permanenza all’aria aperta non può durare più di due ore al giorno (a differenza dei detenuti comuni, ai quali l’art. 10 dell’Ordinamento Penitenziario riconosce quattro ore al giorno di permanenza all’aria) e deve svolgersi in gruppi non superiori a quattro persone (c.d. “gruppo di socialità”), scelte dall’amministrazione tra gli appartenenti a formazioni criminali che non hanno cointeressenze e che provengono da aree geografiche diverse. Tale permanenza all’aperto, tuttavia, spesso consiste nell’accesso ad una gabbia di cemento armato di tre metri per cinque e alta tre metri, chiusa in cima da una rete.
La legge 94/2009 aveva introdotto anche il divieto di cuocere cibi, ma la Corte costituzionale, nel 2018, è intervenuta a statuire l’illegittimità della limitazione, in quanto inutilmente vessatoria.
Vengono impiegate strutture a sicurezza rinforzata costituite, per lo più, da celle singole, un passeggio ed una saletta per la socialità, ove il sottoposto è ristretto e in compagnia di uno o due altri soggetti (denominati in gergo “dame di compagnia”), scelti fra detenuti sottoposti allo stesso regime differenziato, ma appartenenti a gruppi diversi e di livello inferiore, lì collocati al solo scopo di consentire un minimo di socialità.
È vietato vedere determinati canali televisivi (al fine di impedire che, attraverso messaggi di testo a scorrimento inviati dai telespettatori, giungano all’interessato indebite comunicazioni), la videosorveglianza è estesa anche in bagno e vi è l’obbligo di far assistere un agente di Polizia penitenziaria alle visite mediche.
Infine, nella casistica della giurisprudenza della magistratura di sorveglianza, si registrano pronunce in tema di perquisizioni «mediante denudamento con flessione», privazione dello specchio e assegnazione a cella “liscia”, cioè priva di arredo.
L’esame delle modalità applicative del regime speciale induce a spostare il fuoco della discussione dal rilievo di chi sono e cosa hanno fatto i detenuti che vi sono sottoposti, alla considerazione non solo di quali debbano essere le regole che si dà la società civile, a partire dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona anche al detenuto, ma anche sull’uso politico della paura della criminalità.
Jonathan Simon, sin dal 2008, nel suo libro “Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America“, rifletteva sul vantaggio politico offerto dall’attaccare la ‘paura della criminalità’ anziché la criminalità in sé, creando un clima di timori e di aspettative di un intervento politico che garantisca “legge e ordine”, a prescindere da ciò che accade realmente.
L’inasprimento delle pene e del trattamento penitenziario è divenuto parte del moderno panem et circenses; periodici “pacchetti sicurezza” si susseguono, senza mai procedere ad alcuna seria analisi degli effetti concreti che precedenti analoghi provvedimenti hanno avuto sulla manifestazione criminosa che volevano colpire.
La paura della criminalità, se sapientemente alimentata, crea istanze di sicurezza cui i governi possono facilmente rispondere con provvedimenti che hanno costi “politici” ed economici praticamente inesistenti, come tuttavia lo è, spesso, anche la loro concreta utilità nel contrasto del fenomeno.
Il costo reale lo si paga, tuttavia, in termini di rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, che non possono venir meno per esigenze demagogiche, e devono essere tutelati in ogni caso.
Evidentemente, la pena non può non avere caratteri afflittivi ed alla sua natura ineriscono caratteri di difesa sociale, ma ciò non autorizza il pregiudizio della finalità rieducativa, espressamente consacrata dalla Costituzione.
Laddove si intendesse la pena come istituto strumentale alla difesa e alla retribuzione attraverso l’espiazione afflittiva, anziché alla rieducazione, si affermerebbe il principio per cui l’individuo può essere strumentalizzato per fini generali di politica criminale e che la soddisfazione del bisogno collettivo di sicurezza giustifica il sacrificio del singolo attraverso l’esemplarità della sanzione.
Ma, se il fine è rieducativo, allora non può esservi rieducazione, senza rispetto della dignità umana, come non può immaginarsi alcuna dignità umana quando la pena sia priva della finalità rieducativa e sia invece orientata a fini esclusivi di sicurezza sociale.
In carcere, l’inviolabilità dei diritti esige che la loro compressione sia proporzionale alle effettive necessità del trattamento penitenziario e che, soprattutto, sia compatibile con la dignità, intesa quale nucleo minimo ed irriducibile degli stessi diritti fondamentali.
Si tratta di un tema cruciale nella realtà carceraria, ove diviene essenziale una verifica costante della effettività dei diritti fondamentali, perché i rischi di un loro azzeramento sono altissimi e perché, per il detenuto, quel poco che ne residua costituisce un bene prezioso.
In questo quadro, una seria riflessione sulle modalità applicative dell’art. 41-bis dovrebbe costituire per la politica un esercizio doveroso, che non dovrebbe esser travolto da polemiche di basso profilo o, peggio, dimenticato.