Wembley è un tempio.
Non solo consacrato al culto di quegli dei in mutande e calzettoni che praticano l’arte pedatoria.
È stato, specie negli ultimi due decenni del secondo millennio, lo Stonehenge del rock, dei Queen, di David Bowie, di Sting, di Elton John, di Annie Lennox.
Ma fu una ragazzina sbarcata dagli States, appena ventiquattrenne, fresca degli strepitosi successi dei suoi due primi album, che polverizzò, nel primo tour della sua carriera, tutti i record di Wembley inanellando ben dieci concerti consecutivi sold out in uno stadio che, solo nelle tribune, accoglieva 120.000 spettatori.
I più la ricordano per le ombre nelle quali se n’è andata.
Ma fu ben altro.
Clive Davis, il suo discografico, le impose di esordire nel pop. Voleva sbancare, con una cantante nera, il mercato tradizionalmente riservato ai bianchi: niente blues, niente soul, niente gospel, la musica nella quale si era formata.
In parte ebbe ragione, i suoi primi due album frantumarono tutti i record esistenti.
Ma il suo primo Grammy lo vinse con “Save all my love for you”, un brano fortemente blues.
Nei suoi live però si liberava delle catene della discografia e reinterpretava le sue canzoni a modo suo, talmente R&B, talmente soul da essere irriconoscibili ma non per questo meno belle. Anzi di più.
Ha cantato uno dei brani più difficili che esistano saltando le terribili due ottave del ritornello con una naturalezza e una potenza che collocano ancora oggi, la sua interpretazione dell’inno nazionale Usa al Superbowl di Tampa, al primo posto come la migliore di sempre.
Kevin Costner pretese che il thema del “suo” film più noto, fosse un brano country di Dolly Parton che, sebbene scritto nel 1975, non aveva avuto alcun successo.
Lo rovesciò, lo manipolò, lo trasformò facendone una delle canzoni più amate della storia della musica. Con ben 1 miliardo e passa di visualizzazioni su YouTube, sebbene fosse stata pubblicata circa trent’anni fa, la ha votata all’immortalità.
Ha cantato di tutto, soul, blues, r&b classico e contemporaneo, gospel, la lirica con Pavarotti, Gershwin, Bacharach, l’inno nazionale, il thema delle olimpiadi e dei mondiali di calcio e ovunque vennero giù le tribune e gli stadi furono pieni per settimane intere.
Non si è sottratta alle battaglie per la affermazione dei diritti dei neri. Da ragazzina visse la rivolta di Newark e da cantante a 24 anni partecipò al Mandela Day a Londra con ben 8 brani, e quando il leader sudafricano fu liberato andò a Città del Capo e fece un memorabile concerto in suo onore, in momenti in cui per i neri era ancora difficile vivere e per i bianchi era troppo facile sparare. Se ne è andata tra le ombre ma non furono vizi o dissolute deviazioni.
Ne hanno scritte e raccontate tante.
“Can i be me.” disse una volta. Posso essere me stessa?
Forse l’unica interpretazione che non le riuscì: quella della sua vita.
Ciao Whitney.
2 commenti
Bellissimo articolo! Grazie, mi sono commosso.
Semplicemente grazie..